«Dalla Plantaadije, passando su parecchi ponti, e fiancheggiando diversi canali, si arriva sulla grande piazza del Boter Markt, dove c’è una statua gigantesca del Rembrandt e l’ufficio del consolato italiano. Da questa piazza si va al quartiere degli Ebrei che è una delle meraviglie di Amsterdam.
Per andarci, domandai la strada al nostro gentilissimo console, il quale mi rispose: – Cammini diritto fin che non si trovi in un quartiere infinitamente più sudicio di tutti quelli ch’ella ha considerati finora come il non plus ultra del sudiciume; quello è il ghetto; non può sbagliare. – Andai innanzi, ognuno può immaginare con che aspettazione; passai accanto a una sinagoga; mi soffermai un momento in un crocicchio; poi presi la strada più stretta, e in capo a pochi minuti, riconobbi il ghetto. La mia aspettazione fu superata.
È un labirinto di strade strette, fangose e cupe, fiancheggiate da case vecchissime, che pare debbano cadere in rovina a dare un calcio nel muro. Dalle corde tese fra finestra e finestra, dai davanzali, dai chiodi piantati nelle porte, spenzolano e svolazzano sui muri umidi camicie sbrandellate, gonnelle rappezzate, vestiti unti, lenzuoli macchiati, calzoni cenciosi. Davanti alle porte e sugli scalini rotti, in mezzo alle cancellate cadenti, sono esposte le vecchie mercanzie. Rottami di mobili, frammenti d’armi, oggetti di divozione, brandelli d’uniformi, avanzi di strumenti, frantumi di giocattoli, ferramenti, cocci, frangie, cenci, tutte le cose che non han più nome in alcuna lingua umana, tutto quello che hanno guasto e disperso la ruggine, il tarlo, il foco, la rovina, il disordine, la dissipazione, le malattie, la miseria, la morte; tutto quello che i servitori spazzano, che i rigattieri ributtano, che i mendicanti calpestano, che gli animali trascurano; tutto ciò che ingombra, che insudicia, che puzza, che stomaca, che contamina; tutto si ritrova là a mucchi e a strati, destinato a un commercio misterioso, ad accoppiamenti impreveduti, a trasformazioni incredibili. In mezzo a quel cimitero di cose, a quella babilonia d’immondizie, brulica un popolo macilento, pezzente, pidocchioso, accanto al quale i gitani dell’Albaicin di Granata son gente pulita e profumata. Come in tutti i paesi, così anche là hanno preso ad imprestito dal popolo presso cui vivono, il colore del pelo e del viso; ma hanno conservato i nasi adunchi, i menti aguzzi, i capelli crespi, tutti i tratti della razza semitica. Il vocabolario non ha parole per dare un’immagine di quella gente. Capigliature in cui non è mai passato un pettine, occhi che fanno raccapriccio, magrezze di cadaveri consunti, bruttezze che destan pietà, vecchi che serbano appena figura umana, ravvolti in ogni sorta di vestiti di cui non si riconosce più né colore né forma né a che sesso appartengano, dai quali escono, e s’allungano tremolando mani scheletrite con giunture acute di locuste e di ragni. Tutto si fa in mezzo alla strada. Le donne friggono i pesci su piccoli fornelli, le ragazze cullano i bambini, gli uomini rimestano i loro vecchiumi, i ragazzi seminudi si avvoltolano sul selciato coperto di legumi fradici e di brutture di pesci; le vecchie decrepite, sedute in terra, combattono colle unghie ferine i prudori del corpo immondo, scoprendo coll’inconsapevolezza del bruto cenci riposti e membra da cui lo sguardo rifugge. Camminando per lunghi tratti sulla punta dei piedi, turandomi qualche volta il naso, badando a scansare cogli occhi le cose di cui non avrei potuto sostenere la vista, percorsi quasi tutte quelle strade, e quando riuscii sulla sponda d’un largo canale, in un luogo aperto e pulito, mi parve di essere capitato nel paradiso terrestre, ed aspirai con voluttà l’aria impregnata di catrame».(Edmondo De Amicis, Olanda, Barbera Editore, Firenze, 1876³, pp. 304-306)