Nel marzo 2020 l’Ente delle Nazioni Unite per l’uguaglianza di genere e l’empowerment femminile (conosciuto come UN Women) ha pubblicato dei disegni raffigurati il primo Paese al mondo “ad aver raggiunto l’uguaglianza di genere”: Equiterra.
“In Equiterra tutte le persone hanno pari diritti e opportunità, indipendentemente dal sesso. Le donne e le ragazze si sentono al sicuro quando camminano di notte. Vengono pagati allo stesso modo degli uomini, per un lavoro di pari valore”.
L’iniziativa è imbarazzante anche per il livello a cui ci hanno abituato le Nazioni Unite: nel Paese dei Balocchi globalista (cliccare per ingrandire) compaiono il “Vicolo senza violenza”, dove le donne possono camminare senza essere molestate (nell’immagine sono tutte di colore, a parte una bianca disabile, mentre l’unico uomo -bianco- è seduto a leggere su un tappetino in mezzo a un prato); un “Impianto di riciclaggio della mascolinità tossica”, in cui le battute sessiste vengono trasformate in energia pulita (se fosse possibile farlo, questo blog sopperirebbe all’intero consumo europeo); una “Piazza dell’Inclusione” dove una coppia mista di gay osserva il figlioletto giocare con un bambino sulla sedia a rotelle; una “Via dell’attivismo climatico”, dove due neri e un ebreo coltivano piantine (perché a Equiterra “non ci sono negazionisti del cambiamento climatico”, probabilmente gli ultimi li avranno portati in qualche campo di rieducazione). Eccetera eccetera.
Stendiamo un velo pietoso e lasciamo la parola a Robert Hughes, che ne La cultura del piagnisteo (1993) osservava quanto segue:
«La comunità americana non ha altra scelta che quella di vivere prendendo atto delle diversità; ma quando le diversità vengono erette a baluardi culturali ne viene distrutta. Una volta si usava una metafora stantia – “balcanizzazione” – per evocare il frammentarsi di una zona in fazioni, gruppi, piccoli nuclei di potere. Oggi, sul cadavere smembrato della Jugoslavia, dove la morte del comunismo ha scatenato le “diversità culturali” (o, per dirla come sta, le arcaiche idiozie etnico-religiose), vediamo cosa significasse a suo tempo, e torni ora a significare, quella vecchia figura retorica. Un mondo hobbesiano: la guerra di tutti contro tutti».
Dunque pare particolarmente appropriata la “rivisitazione” in salsa balcanica proposta da un anonimo user sloveno su Twitter (cliccare per ingrandire):
Fixed it https://t.co/vIiVlVDeVy pic.twitter.com/gZ2J3d850q
— ♛🇸🇮 (@ViViJuche) December 28, 2020
C’è tutto quello che uno slavo meridionale può desiderare: una fabbrica di cemento, l’ambasciata brasiliana, le palle demolitrici della NATO contro un muro targato “Novi Sad”, la gigantografia di un “illirico dell’anno”, una “strada ebraica” (Židovská cesta), un fast-food di solo burek, un centro di lavoro minorile, un laboratorio che produce metanfetamine, l’icona di Aleksa Đurić davanti al cartello del Kosovo (un oscuro meme balcanico, un tizio che in ogni conflitto viene spacciato come mercenario serbo per il fantomatico Gruppo Wagner) e, naturalmente, il Lidl e il Danubio.
Mi sembra materiale memetico di prima qualità