Vorrei proporre alcune considerazioni sui “processi del secolo” di cui si parla praticamente da oltre tre lustri, cioè la strage di Erba, l’omicidio di Chiara Poggi a Garlasco e l’uccisione di Yara Gambirasio a Brembate, soprattutto considerando che negli ultimi anni, non solo da una prospettiva giudiziaria, è accaduto l’impensabile per ognuno di questi casi.
In primis, per quanto riguarda i fatti di Erba, c’è stata la clamorosa (perché tecnicamente si tratta di un’iniziativa “straordinaria”) richiesta di revisione del processo da parte dell’ex giudice della Corte penale internazionale Cuno Tarfusser, che pur non essendo stato accolto dalla Corte d’Appello di Brescia ha comunque scosso alcune monolitiche certezze almeno nell’opinione pubblica.
Così come, mutatis mutandis, la “serie” che Netflix ha voluto dedicare a Massimo Bossetti, la quale è riuscita finalmente a sfondare il muro di gomma del mainstream, fino al 2023 colpevolista più per motivi politici e culturali che non per una reale cognizione di come si siano svolte le indagini e il processo al “muratore di Mapello”.
Ora, proprio in questi giorni, si fa un gran parlare della “riapertura” del caso di Garlasco, cittadina del pavese dove nell’estate del 2007 la ventiseienne Chiara Poggi venne barbaramente uccisa (e l’avverbio non è usato per banalità) dal suo fidanzato Alberto Stasi. Questo almeno è ciò che sosteneva la “verità giudiziaria”, fino a quando la Procura di Pavia ha riaperto le indagini con un vero e proprio “espediente”, cioè la nuova iscrizione di un amico del fratello della vittima nel registro di indagati nella forma del “concorso d’omicidio” con Stasi (nonostante la persona in questione non l’abbia forse mai nemmeno incontrato).
Io non sono un esperto di cronaca giudiziaria (Dio me ne scampi), però come qualsiasi persona dotata di un minimo di criterio posso rendermi conto di come tali “distorsioni” siano un sintomo delle condizioni pietose in cui è ridotto il “sistema giustizia” nel nostro Paese.
Partiamo da un assunto: se tutte le persone condannate (i coniugi di Erba, Bossetti, Stasi) fossero effettivamente gli esecutori materiali dei rispettivi delitti, in ogni caso i metodi con cui si è giunti alla loro condanna avrebbero potenzialmente posto le basi per la confusione che circonda ognuno dei casi in cui sono coinvolti.
Non vorrei nemmeno parlare dei casi in sé, perché so quello che sapete voi, ma delle dinamiche con cui si è giunti a tale disastro. Partiamo dal cortocircuito mediatico-giudiziario: è forse un imprinting della Seconda Repubblica, frutto dall’affiatamento -obbligato?- sorto fra magistrati e giornalisti nel tentativo di far fuori un’intera classe politica?
Senza dubbio la forma mentis di “Mani Pulite” ha influenzato pesantemente il rapporto tra giustizia e opinione pubblica (e sorvoliamo, per carità di patria, su tutta l’era berlusconiana), ma la trasformazione della “macchina giudiziaria” in puro spettacolo mi pare abbia immediatamente esondato i limiti della politica, prima ancora che si scadesse nello squallore del true crime.
Se dovessi chiedere a chiunque dei miei lettori nati tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso quale sia stato il “motore primo” della spettacolarizzazione, penso che la maggior parte risponderebbe citando il delitto di Cogne, in cui una madre uccise il figlio di tre anni. In effetti di quel caso se n’è parlato per tantissimo tempo, tanto è vero che un -ancora relativamente- giovane Marco Travaglio all’epoca accusò senza mezzi termini alcuni presentatori televisivi (da Bruno Vespa a Enrico Mentana, ma anche Barbara Palombelli o Paolo Crepet) di aver ingigantito il caso fino a trasformalo in un “baraccone” per propagandare “il modello di difesa berlusconiano”, relegando la questione della “tv giudiziaria” e/o “giustizia televisiva” al “berlusconismo” (al che Vespa rispose indirettamente che della madre omicida avevano parlato anche i principali media internazionali).
Sinceramente trovo questa lettura più frutto di paranoia (ai limiti del delirio) che di una reale capacità di comprendere come funzioni il mondo dello spettacolo e quali forze lo influenzino. Se proprio si deve essere “complottisti”, allora tanto varrebbe identificare come primum movens il Delitto di Novi Ligure del febbraio 2001, quando una sedicenne, coadiuvata dal suo fidanzato quasi coetaneo, massacrò a coltellate la madre e il fratellino di undici anni. Nonostante in quel caso il “quadro” dell’accaduto fosse abbastanza chiaro, i media cominciarono a parlarne incessantemente e, in un rigurgito di sessantottismo, lo posero a emblema di una “crisi della famiglia” che era stata fin troppo trascurata.
Cogne venne dopo, e si inserì nella stessa scia di “decostruzionismo un tanto al chilo”, ma chi ai tempi di “Erika&Omar” avesse mai acceso la televisione per 5 minuti sarebbe stato assillato dalle reprimende sulla “perfetta famiglia borghese” che si scontrava con la necessità di emancipazione e liberazione dei propri “figli” (alcuni sprazzi di tale vaneggiamento non-stop lo si può apprezzare ancora nei “comunicati stampa” del solito Partito Marxista-Leninista Italiano che proponeva una tesi piuttosto in voga nonostante il mainstream l’avesse ricoperta di melassa psico-sociologica).
Ad ogni modo, un esercizio di tal fatta (la ricerca delle origini della “giustizia in tv”) oltre a essere inutile è anche abbastanza lugubre. Magari l’unica interpretazione degna di nota è che al giorno d’oggi l’opinione pubblica ha un rapporto più disincantato verso la “giustizia” e non crede più in certi stantii slogan del tipo “le sentenze non si commentato, si rispettano”, un mantra privo di alcun senso che pure è rimasto per decenni nel lessico del politichese.
Per certi versi, tale esito potrebbe persino una forma inconscia di rigetto verso l’indebita traslazione del diritto divino dai monarchi ai giudici, o della sacralità dai paramenti liturgici alle tutine dei RIS. I magistrati sono tornati sulla terra e si è scoperto che, anche dopo Mani Pulite, si poteva criticarli così come si era sempre fatto con i politici, gli arbitri, gli “esperti” eccetera.
Queste però sono considerazioni generali. Tornando al caso particolare, anzi ai casi particolari, tutta la mitologia sui “superscienziati” a caccia di DNA si è arenata di fronte alla dura realtà di scene del delitto trasformate in piazze pubbliche (dove i presenti talvolta sono scivolati sulle macchie di sangue), di impronte digitali cancellate dallo sballottamento dei cadaveri delle vittime, di testimonianze raccolte con sufficienza e faciloneria, di reperti tenuti in scatole di cartone tra topi e muffe assortite, di “gole profonde” che hanno un filo diretto con le redazioni e trasmettono a esse qualsiasi “informazione riservata” degna di bucare lo schermo, eccetera eccetera.
Questo non significa dubitare sistematicamente delle autorità preposte a indagare sui crimini, né contestare qualsiasi verdetto emesso da tale o talaltro giudice, e tantomeno sostenere l’innocenza di un individuo che è palesemente colpevole. Significa solo pretendere un minimo di responsabilità da ognuno dei coinvolti. In tal senso, e a mo’ di conclusione, pur provando poca simpatia per un personaggio come Gianluigi Nuzzi, anzi trovando la sua trasmissione “Quarto Grado” talvolta ai limiti del trash, non posso che condividere in peino la sua “requisitoria” sui fatti di Garlasco esposta all’inizio dell’ultima puntata del suo programma:
«Una inchiesta-odissea, una inchiesta-calvario per tutte le persone coinvolte. Un’inchiesta che è fatta di dolore, ed è sicuramente quello della famiglia di Chiara, e di tanti errori. Chi ha ucciso Chiara aveva lasciato cinque polpastrelli, le impronte di cinque polpastrelli che vediamo sulla spalla sinistra del pigiama rosa a righe bianche della povera Chiara. Era una firma. Bisognava prendere le impronte dattiloscopiche di questi cinque polpastrelli e capire chi fosse l’assassino. E invece il corpo è stato voltato, la maglietta rosa si è intrisa di sangue e quella firma è stata cancellata per sempre.
Io trattengo lo sdegno, l’incredulità, rispetto ai tanti, troppi, errori che in questa inchiesta sono stati fatti, e dall’altra parte mi interrogo; ma più che il sottoscritto, si stanno interrogando a Pavia il procuratore capo Fabio Napoleone con gli inquirenti per capire se questi errori sono frutto di qualcuno che ha “amato troppo la sua tesi”, e si cerca di capire perché. tre relazioni di altrettanti genetisti [….] andavo in una direzione, e di queste tre relazioni sono stati fatti coriandoli, non è stato dato nessun valore a questi scienziati che attribuivano il DNA sulle unghie di Chiara a qualcuno di diverso rispetto a chi è in carcere.
Non chiedetemi se è colpevole o innocente Alberto Stasi […], perché credo che tutti noi dobbiamo rimetterci a chi fa le indagini, ma se queste indagini sono zeppe di errori, allora monta lo sdegno, l’incredulità e la rabbia. E uno si chiede perché questi errori: ci si è innamorati troppo di una tesi, o forse c’è dell’altro? Perché, quando si è al cospetto di una manomissione continua della verità, ci si chiede se c’è la buona fede o la cattiva fede da una parte e dall’altra».