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Erdoğan in Libia: gasdotti, geopolitica e onore

Il parlamento turco ha appena approvato, con i voti di AKP e MHP (contro tutte le opposizioni di destra e sinistra), l’intervento militare in Libia. Il primo punto della mozione parla di “proteggere gli interessi turchi nel Mediterraneo”: si parla soprattutto di interessi energetici, in base a un accordo tra Ankara e Tripoli sulle frontiere marittime dell’Akdeniz orientale, ormai spazio di una competizione aperta e feroce tra i vari attori regionali.

Contro infatti le ambizioni turche (che vorrebbe “approfittare” della contiguità dei confini marittimi libici con Cipro e Creta) resta solo Atene che, snobbata da Bruxelles, ha dovuto coinvolgere Israele nell’ambiziosissimo progetto EastMed, una risposta “europea” (si fa per dire) al minaccioso gasdotto russo-turco TurkStream (il quale secondo i nostri rinomati esperti di geopolitica non si sarebbe più fatto e invece eccolo qui identico a prima – nome a parte).

In tutto ciò l’Italia si auto-esclude per pura subalternità alle politiche dell’Ue, un organismo politico ormai putrescente che questa volta ha davvero dato il peggio di sé, da un lato non garantendo alcuna protezione ad Atene perché terrorizzata dai ricatti di Erdoğan sugli immigrati (ma non dovevamo accoglierli tutti?) e dall’altro addirittura tentando di sabotare l’EastMed con il solito terrorismo psicologico “ambientalista”. Nel frattempo la Merkel è già pronta a correre ad Ankara…

Certe cose sono talmente deprimenti che non vale nemmeno la pena discuterne. In ogni caso bisogna specificare che l’intervento turco, nonostante Erdoğan abbia promesso di “colpire in terra, mare e cielo” (ma lasciategliela dire qualcosina ogni tanto!), ha soprattutto uno scopo persuasivo: costringere Haftar, sostenuto da Russia, Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, alla tregua. Per certi versi noi italiani dovremmo “ringraziare” Ankara, che sta mettendo una pezza su una situazione che avremmo dovuto risolvere mesi, se non anni, fa. Anche qui, imbarazzo totale per quei commentatori che si riempiono la bocca di “geopolitica” e poi continuano a conferire una superiorità morale ad Haftar solo in base alle sue alleanze: nelle circostanze attuali l’unico compito di Roma era sostenere al-Serraj, missione alla quale avrebbe potuto adempiere in modo piuttosto agevole considerando che Mosca non è stata disposta nemmeno a morire per Gheddafi (figuriamoci per una sua controfigura) e che tutti gli altri sono attori secondari nell’arena mediterranea (e comunque totalmente contenibili appoggiandosi all’asse Ankara-Doha nato dopo i recenti rivolgimenti mediorientali).

Trovo anche ridicoli gli allarmismi sui “mercenari siriani” che eventualmente arriveranno a sostenere il Governo di Accordo Nazionale di Tripoli: da quale delle numerose e fantasmagoriche prospettive identitarie  (italiane, europee, mediterranee, occidentali ecc…) sarebbero meno accettabili di tutti i mercenari che da tempo Mosca sta mandando in Libia? Forse i russi sono più cristiani, più europei, più bianchi, più biondi, più buoni? Non se ne può più di queste infatuazioni adolescenziali scambiate per finissime analisi strategiche.

La verità è che la geopolitica, come al solito, non c’entra nulla, perché -come la vita- è “una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”. La Turchia non torna a Tripoli per motivi geobbolittigi, ma perché la Libia è l’ultimo pezzo perso dall’Impero Ottomano. Nei comizi preparativi dell’intervento, Erdoğan ha sfoderato tutto l’armamentario retorico nazionalistico, arringando le folle col ricordo che anche Atatürk combatté e fu ferito (ad un gamba?) in Libia.

I giornali italiani sono ovviamente corsi a raccontare lo “scontento” dei turchi per Le Follie del Sultano, un film proiettato solo nelle nostre redazioni. In realtà nel Paese l’entusiasmo per la possibile impresa militare è alto: Ali Bayramoğlu, commentatore anti-Erdoğan di centro-destra, su Yeni Şafak ha sottolineato come “storicamente i partiti turchi non hanno mai agito senza l’approvazione degli Stati Uniti: questa intraprendenza, quest’aria di sfida, è una novità che galvanizza l’elettorato”.

Dal punto di vista “geopolitico”, se mai ne esistesse uno, di fronte alla nuova cornucopia energetica mediterranea la Turchia avrebbe dovuto seguire tutt’altra “strada obbligata”: concludere l’accordo per l’entrata nell’Unione Europea e trovare un componimento con Atene sulla questione cipriota. A quanto pare la geografia influenza la politica meno del mito, della storia e dell’onore.

La Turchia infatti non è solo la Turchia, è quella cosa che per Süleyman Demirel va “dall’Adriatico al Mar Giallo” (Adriyatik’ten Çin Seddi’ne kadar, letteralmente dall'”Adriatico alla Grande Muraglia” ma consentirete la citazione). Agisce in un nome di un passato che nemmeno esiste, come qualsiasi nazione fa da sempre: del resto pure la Russia, come ha scritto giustamente “Le Monde”, non punta sulla Libia per garantirsi risorse che nemmeno gli servono, ma per una question symbolique: riportare le lancette della storia indietro al 2011 e assestare uno schiaffone agli Stati Uniti.

Ognuno dunque ha le sue ragioni “metapolitiche” (cioè in ultima istanza assolutamente irrazionali), per intervenire in Libia. La stessa Italia ne avrebbe un ventaglio impressionante, alcune veramente “geografiche e politiche” nel senso proprio del termine: evidentemente anche il non agire è una scelta, dettata da interessi che però non sembrano i nostri. Ad ogni modo, evitiamo come al solito di gettare il nostro nulla sulle spalle di altri.

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