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Esiste il “femminicidio”?

L’espressione “femminicidio”, di cui si può percepire l’abuso ormai a livello quotidiano, è un neologismo entrato nel lessico delle agenzie culturali internazionali piuttosto recentemente, a partire dagli anni ’10 del 2000, quando è stato reso mainstream dalle femministe anglosassoni per descrivere i massacri della mafia messicana. Sin dal principio, dunque, il termine è stato utilizzato in maniera obiettivamente equivoca, se non erronea, per ridurre faide e conflitti tra cartelli di narcotrafficanti a una questione di genere.

Ad ogni modo, esso è arrivato in Italia nello stesso periodo ed è stato subito appiccicato, con la medesima ambiguità, su fatti di cronaca dalla natura più disparata per manipolarli a fini ideologici. L’etichetta di “femminicidio”, attraverso l’allarmismo mediatico sui casi di donne ammazzate in Italia (che in realtà, da quando si raccolgono questo tipo di dati, è il Paese col più basso numero di omicidi femminili in Europa -secondo solo alla Norvegia- e nel mondo intero, si veda questo studio ONU a pag. 18 o qualsiasi altra fonte), viene peraltro sfruttata in modo surrettizio per alludere a un presunto “genocidio” delle appartenenti al gentil sesso da parte di squadroni patriarcali della morte (per qualche anno si è tentato di connotare il fenomeno, sempre inesistente, con l’espressione ancor più improponibile “ginocidio”).

Siamo, in ultima analisi, al cospetto di un’emergenza inventata di sana pianta e indicata con un neologismo che non ha alcuna connotazione lessicale, né tantomeno giuridica. Volendo però accettarne, per assurdo, l’esistenza, sia come problema individuale che come questione sociale, si dovrebbe comunque segnalare un dato agli invasati di casa nostra: a livello internazionale l’Italia è uno dei pochi Paesi rimasti ad utilizzare ancora l’espressione femminicidio. Il fatto è che, come ha dimostrato il giornalista Matt Walsh andando in giro a porre la semplice domanda “Cos’è una donna?” a giornalisti, professori e politici, nelle stesse agenzie culturali che hanno lanciato lo slogan ora c’è parecchia confusione su cosa significhi essere una donna (e tanto meno una “femmina”).

No, non voglio provocare, ma solo chiarire un punto essenziale: se i legislatori credono davvero che il femminicidio sia una calamità nazionale da affrontare con provvedimenti d’urgenza (questo sempre presupponendo la buona fede di chi fa allarmismo), allora bisogna essere rigorosi sulla definizione della categoria che andrebbe protetta. Un uomo che si “sente” donna, magari solo a livello di abbigliamento, può essere vittima di “femminicidio”? La confusione al riguardo è uno dei motivi per cui non sono passate le draconiane leggi anti-omofobia contenute nel famigerato DDL Zan: si è trattato di una faida tra correnti che riversano la loro confusione ideologica (e anche mentale) sull’opinione pubblica.

Torniamo però alle femmine: posto che esista qualcosa di simile al “femminicidio” e posto che nell’anno corrente si possa ancora definire una persona come “femmina” senza cadere in qualche reato d’opinione, allora si dovrebbe spostare l’attenzione sul “convitato di pietra” di tutta la questione, ovvero l’invincibile attrazione delle donne per gli uomini dominanti e violenti. Su tale aspetto è difficile transigere: le stesse -innumerevoli- trasmissioni che mettono in scena i femminicidi illustrano anche gli infiniti “campanelli d’allarme” manifestati dall’atteggiamento dei partner maschili nei confronti delle loro compagne. In tal caso, valgono poco le ossessive campagne mediatiche nel contrastare la violenza, se le potenziali vittime non fanno nulla per evitarla.

D’altro canto, non vedo come la soluzione possa essere quella di dissuadere una donna dall’andare con un eventuale “femminicida”: posto che sia possibile farlo senza paternalismi (o “patriarcalismi”), chi dovrebbe assumersene l’onore? Lo Stato, la famiglia della potenziale vittima, oppure -per non tornare troppi secoli addietro-, le sue amiche del cuore? Siamo seri.

Per concludere, analizziamo la situazione attuale. Il 25 novembre 2022, “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne”, in Italia è stato celebrato nella maniera più schizofrenica possibile: da una parte, una premier, Giorgia Meloni, espressione del partito più a destra giunto a governare nella storia repubblicana, che usa un linguaggio pseudo-femminista (come “tetto di cristallo”, traduzione improvvisata dell’espressione glass ceiling usata nel discorso per la fiducia alla Camera) e strumentalizza la tematica per mettere in difficoltà i suoi avversari politici (comportamento più che legittimo); dall’altra, le femministe in corteo per tutte le città a minacciare il primo premier donna della storia italiana di “mangiarle il cuore”.

Sullo sfondo, una polemica verso la Meloni di una parte della stampa, che ha tirato fuori i trascorsi giudiziari del padre (assente dalla vita dell’attuale premier da oltre un trentennio e condannato per spaccio a metà degli anni ’90) per darle addosso non si sa in quale modo (ormai l’intellighenzia non ha più intelligenza). Se volessimo seguire la linea dei giornaloni, potremmo insinuare che la biografia stessa della Presidente del Consiglio ci obbligherebbe a ragionare su come le donne scelgono i loro uomini. Ma non siamo così meschini. Semplicemente, vorremmo solo un argine allo stillicidio. O eventualmente qualche proposta concreta (seppur in presenza di una “emergenza” inconsistente) al di là del terrorismo psicologico istituzionale

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