Chef Rubio, al secolo Gabriele Rubini, ex volto televisivo da anni al centro di polemiche dopo aver distrutto la sua carriera per farsi portavoce dei diritti dei palestinesi, nella notte del 15 maggio è stato aggredito da ignoti armati di martello e mattoni davanti alla casa di famiglia.
Lo chef, mostrando il volto ricoperto di sangue su X/Twitter, ha immediatamente puntato il dito contro presunte “squadracce sioniste”, rappresentate dal manipolo che lo ha massacrato di botte.
Grazie a tutte e tutti per il sostegno. Alla fine punti in testa dove mi hanno dato la martellata, tagli ed escoriazioni dove mi hanno preso a mattonate, frattura dell’orbita facciale dove sono finiti i 60 pugni mirati, e si ricomincia. Un abbraccio alla comunità ebraica 🇵🇸✌🏾 pic.twitter.com/9sVzX3Wt72
— Rubio 🔻 (@rubio_chef) May 16, 2024
In seguito Rubio è tornato a parlare più specificamente (citando da un articolo dal portale dei Comitati di Appoggio alla Resistenza per il Comunismo) di
«sionisti romani, prima organizzati nella Led (Lega ebraica di difesa) ora nella Brigata ebraica, sono gruppi di destra, ultras delle curva di Roma e Lazio addestrati, militarizzati, finanziati e impuniti operano alla maniera dei nazisti degli anni ‘30».
Rifondazione Comunista ha invece alluso a “gruppi organizzati filoisraeliani di autodifesa” presenti sul territorio nazionale. Sinceramente non sono in grado di affrontare l’argomento dalla prospettiva in loco espressa da queste organizzazioni, oltre che da Chef Rubio stesso. Non voglio nemmeno formulare accuse infondate contro chicchessia, nonostante sia convinto che allo stato attuale dirsi “ebreo” in un Paese occidentale e difendere quanto sta facendo Israele a Gaza rappresenti una contraddizione sia in termini ideologici che morali oltre che intellettuali.
Posso però notare, da semplice osservatore di quel fenomeno che definirei filosemitismo più che “sionismo”, una certa somiglianza tra la comunità ebraica romana e le altre comunità europee (e americane) in cui è presente questo tipo di “attivismo”, se così si può definire.
Mentre nelle principali città italiane l’ebraismo ha assunto anche una connotazione di “classe”, ritagliandosi un settore sociale ben preciso (a Milano come a Firenze o a Bologna, con eccezioni forse riscontrabili nel veneziano), nella Capitale è ancora presente quel tipo umano che non vuole rinunciare alla “mentalità da ghetto” (in senso lato) e non disdegna di vivere la propria ebraicità come farebbe un macellaio kosher delle banlieue parigine o delle periferie newyorchesi (anche se in quest’ultimo caso, soprattutto a partire dalla fine degli anni ’70 del secolo scorso, c’è stata una migrazione di massa della piccola e media borghesia ebraica dai quartieri divenuti ormai “difficili” che decenni prima avevano invece voluto trasformare in loro habitat ideologico).
Ora, come ho già detto non conosco Roma e parlo solo in base alle conoscenze in mio possesso nelle semplici vesti dello studioso, ma ci sono alcuni dati “storici” difficilmente confutabili: in primis, la progressiva osmosi tra organizzazioni della destra capitolina ed ebraismo “istituzionale” che è culminata, tra le altre cose, nell’offerta all’inizio degli anni ’70 da parte di Giulio Caradonna (segretario della Destra Nazionale per la provincia di Roma) di proporre all’allora rabbino capo Elio Toaff un manipolo di “pretoriani” come “guardie del corpo” alla comunità ebraica, minacciata sempre più frequentemente dagli attacchi dei militanti comunisti.
Il rabbino rifiutò, ma dal gesto nacque un “prudente” dialogo, e il breve messaggio di ringraziamento del rabbino venne portato da Giorgio Almirante negli Stati Uniti per preservarsi dalle accuse di antisemitismo.
Oltre a questo, si registrano almeno da vent’anni a questa parte diversi episodio di aggressione da parte -ancora- di non precisati “sionisti” a diversi manifestanti comunisti filopalestinesi (qui si può consultare un dossier stilato dal Forum Palestina).
Inoltre, sulla “opposta barricata”, ricordo nel 2007 un pestaggio all’allora ottantenne storico revisionista francese Robert Faurisson (1929–2018) in un bar di Teramo dove era giunto per partecipare a un -contestatissimo- convegno nell’università cittadina. A detta dei testimoni gli aggressori si presentarono come “ebrei provenienti da Roma”. In quell’occasione la sezione locale dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia intervenne in difesa dello storico, pur specificando le divergenze non solo ideologiche; l’ANPI fu immediatamente travolta dalle proteste e i vertici nazionali dovettero dissociarsi per evitare qualsiasi “strumentalizzazione”.
Ovviamente tutto ciò potrebbe non voler dire alcunché , ma ci vorrebbe cautela nel considerare l’aggressione a Gabriele Rubini frutto di suoi trascorsi personali, perché nonostante le forme pittoresche e sempre sopra le righe della sua militanza filopalestinese, è difficile escludere a priori un nesso causale tra le sue dichiarazioni pubbliche (seppur ristrette, almeno mediaticamente, ai social) e quanto accaduto pochi giorni fa.
Per il resto, ci si può limitare a inanellare fatti che di per sé rappresentano una qualche forma di “verità storica” (qualsiasi significato si voglia conferire all’espressione) e domandarsi se le comunità ebraiche, anche prescindendo totalmente dal fatto di cronaca, siano prima o poi intenzionate ad aprire un dibattito serio e senza pregiudizi o “anatemi” sul senso di un’identità che deve necessariamente fare i conti con quanto sta accadendo in Israele, nel momento in cui esse stese si fanno portavoce di valori regolarmente oltraggiati e negati dallo Stato ebraico.