Et in Arcadia nemo: sulla “retorica pastorale” in religione (e in politica)

Papa Francesco e l’Italia dei rebus

Nel post segnalato qui sopra avanzavamo tra le righe qualche dubbio sull’immagine di “curato di campagna” che Papa Francesco tentava di ritagliarsi a livello mediatico, premendo soprattutto su una presunta “piemontesità” che ispirerebbe nel profondo il suo magistero.

Ora però che a distanza di anni Bergoglio torna sull’argomento, riconoscendo addirittura il piemontese come lingua madre, facciamo apertamente nostri i rilievi di quel lettore che ci ha segnalato la notizia:

«Bergoglio è bloccato in un passato distorto, tipo i preti da me [chi parla è veneto, ndr] che, seppur rintronati per l’età, vogliono ancora fare i riformatori. Salgono sul pulpito e iniziano delle intemerate contro “i cattolici che pensano di salvarsi facendo X o Y”. Un classico, solo che gli esempi non sono nemmeno il solito (e già oggi vacillante, viste le teste bianche presenti di solito, e in diminuzione come gli elettori del PD) “andare a messa”, ma robe da anni ’50 (“Non basta recitare il rosario tutte le sere!”), robe che credo risultino persino incomprensibili a chi non abbia più di 60 anni (“Non basta fare le Rogazioni per avere dei buoni raccolti!”). Continuano a dare addosso a un mondo religioso rurale che è morto è sepolto, fra le rotonde e i bar con nomi pseudoinglesi. Penso che a macchia di leopardo anche in altri paesini sia stato così, cioè tracce della civiltà contadina sono arrivate fino ad anni ’90 inoltrati in qualche modo e proprio ciò ha permesso il perpetuarsi oltre ogni sopportazione di questi preti modernisti fuori tempo massimo. Ora vengono direttamente sciolte le parrocchie in macrounità pastorali, che alla fine era il sogno di questi preti… Li ricordo, in tempi non sospetti, magnificare le mitiche “comunità dell’Amazzonia” (ora Bergoglio infatti vuole farci un sinodo), nelle quali, per assenza di preti e generale sfacelo, “i laici si sono dovuti organizzare, danno loro le comunioni, amministrano, fanno la catechesi in autonomia, bellissimo…”, e io ragazzino pensavo “ma scusa, qui i preti ci sono per ora, perché prendere un modello così?”. Eh, appunto, mi avrebbero dovuto rispondere».

Troppi fedeli si sono lasciati abbindolare da un presunto candore agreste, da una “naturalezza” che in realtà nascondeva la mimesi di un modello artefatto, il quale ha in definitiva più in comune col modernariato che con la tradizione.

Lo stesso lettore ci segnala poi un collegamento con un’intervista al presidente della Fondazione Cariplo (“filantropo”) Giuseppe Guzzetti, che muove fondamentalmente dallo stesso milieu culturale-religioso di Papa Francesco (Il mio cattolicesimo sociale, la cascina e i contadini analfabeti, “Il Sole 24 Ore”, 1 ottobre 2018)

«A Saronno c’erano il santuario della Madonna, i mercati delle stoffe e il boario. Il mediatore avvicinava i prezzi e le mani di chi vendeva e di chi comprava. Quando riusciva a far sovrapporre le mani dei due, l’accordo era siglato. Il codice d’onore era fondato sulla parola data. Io vengo da lì.
[…] In un mondo globalizzato, la Comunità locale è la dimensione su cui poggiare; aggrega le persone, collaborano e mettono anche soldi per risolvere i problemi delle famiglie, del vicino di casa; aziende, istituzioni, amministrazioni locali stanno dimostrando che si può cambiare il modello di welfare e alla parola Stato sostituire quella di Comunità».

L’idillio in tal caso è più sfacciatamente strumentalizzato in favore di un localismo delle comunità, il quale non è che l’altra faccia del globalismo delle moltitudini. Il Pontefice non sembra però essersi spinto ancora così in là (anche se con la Laudato si’ un po’ ci ha provato): non vorremmo comunque scoprire un giorno che anche “l’odore delle pecore” serva in realtà a nascondere ben altre “fragranze”…

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