Ogni volta che si verifica quel particolare evento chiamato “femminicidio”, l’infosfera italiana si trasforma letteralmente in una gabbia di mattə: invocazioni di sterminio collettivo di una parte del genere maschile (dal quale vengono opportunamente escluse ampie porzioni, e vedremo subito il perché), allestimento di corsi (o campi) di rieducazione, appelli a diffidare di chiunque sia in possesso di un pene, preferibilmente bianco, italiano e cristiano (s’intende il pene), eccetera eccetera.
Per chiarire subito la questione, partiamo dal numero di donne uccise in Italia nel 2023 (che, come è in grado di controllare chiunque, rimane tra i più bassi in Europa): l’Istat ne conta circa un centinaio. Non si può classificare ognuno di questi casi come femminicidio, naturalmente, perché la definizione scientifica del fenomeno afferma quanto segue: si definisce come “femminicida” quel maschio dalla carnagione bianca, italiano da almeno 4 generazioni, professante generalmente la religione cattolica e non includibile in alcuna “categoria protetta” (per citare le espressioni dei Ministeri) né in una minoranza etnica, culturale, sociale, religiosa eccetera eccetera.
Non dico questo per fare ironia, poiché è un dato di fatto che in Italia non è considerato “femminicidio” l’uccisione di una donna da parte di un’altra donna, anche qualora il movente fosse effettivamente di natura passionale (come nel caso in cui il colpevole fosse una lesbica respinta o l’amante del compagno della vittima). Il requisito minimo indispensabile affinché un’uccisione volontaria di una donna possa essere valutata come femminicidio è dunque la presenza di un uomo come carnefice.
Tali accezioni già di per sé fanno scendere il numero di femminicidi effettivi a circa il 30% del numero totale di donne uccise in Italia. Non a caso alcune associazioni, tutt’alto che intenzionate a minimizzare il fenomeno, ne contano meno di una quarantina. A tale cifra vanno poi sottratti i casi in cui il carnefice è un uomo di origini straniere: ecco il motivo per cui non si è sentito parlare, se non nella cronaca locale, degli omicidi (indico solo le iniziali per rispetto delle vittime) di Y.M. (uccisa dal compagno moldavo), I.A. (uccisa dal convivente ucraino), Z.U. (uccisa dal marito albanese), S.R. e B.R. (madre e figlia uccise dal marito marocchino di quest’ultima), D.N. (uccisa dal compagno della Nuova Guinea), J.M. uccisa assieme al presunto compagno di sua madre dal padre di lei (di origine albanese), M.M.C. (diciassettenne uccisa a giugno da un coetaneo cingalese, del quale la stampa non ha ancora divulgato dopo mesi le generalità nonostante sia reo confesso), S.C. (uccisa dall’ex fidanzato italo-marocchino), C.F.M. (uccisa dall’ex compagno di origini turche), V.S. (un finto suicidio che sarebbe stato inscenato dal compagno romeno), R.N. (uccisa da un marocchino che avrebbe avuto una relazione con la vittima), L.C. (uccisa dal compagno marocchino), K.V. (uccisa dal marito albanese), E.K. (uccisa dal marito albanese).
Dal momento che nessuno di questi fatti di cronaca ha interessato i media, la politica e il mondo delle associazioni, è difficile per l’appunto poterli classificare come femminicidi, posto che tale crimine non ha di per sé una definizione giuridica, e neanche politica o sociale, ma perlopiù ideologica e mediatica: di conseguenza anche questi 15 omicidi andrebbero espunti dall’elenco perché non hanno suscitato clamore di alcun genere, principalmente a causa dell’orientamento e degli obiettivi delle varie sigle pseudo-istituzionali interessate a circoscrivere nella maniera più netta possibile le accuse collettive al “genere maschile” al tipo di uomo di cui si diceva sopra (bianco, italiano, cattolico ecc…). Emblematico, da tale prospettiva (ma purtroppo si potrebbero portare decine di esempi), l’assassinio alla fine del 2020 di una imprenditrice etiope uccisa da un suo dipendente ghanese e passata in poche ore a simbolo di una nuova crociata anti-femminicidio a triste caso di cronaca nera.
Inoltre, bisogna considerare che qualora l’assassinio soffra di disturbi mentali e abbia ucciso una donna “in quanto donna” su impulso di essi (di solito tali notizie sono corredate da commenti come “uccisa senza un perché” o “in preda a un raptus”), anch’egli verrebbe automaticamente escluso dal conteggio in quanto rientrante in un’altra categoria protetta, quella dei malati mentali.
Infine, è imbarazzante ricordarlo, ma, sempre analizzando gli episodi avvenuti nel 2023 (il riferimento vale solo per comodità, ma la tendenza è riscontrabile anche in altri anni), è difficile non notare come oltre la metà dei casi si sia verificato nel Sud d’Italia, in località dove esiste forse un qualche residuo di “cultura patriarcale”, se proprio ci si vuole rifare alle improponibili categorie tirate in ballo dai media: eppure, anche qui, si evita di imbastire imbarazzanti analisi pseudo-sociologiche o lanciare accuse collettive per timore che in qualche modo si possa dare l’impressione di avercela con i “terroni”. Di sicuro dei femminicidi occorsi in Sicilia o Campania non si sente parlare per giorni né essi diventano occasione per manifestazioni e appelli, a differenza di quelli che accadono in Lombardia o Veneto.
Ecco quindi che la lista dei femminicidi effettivi, cioè di quelli di cui il sistema politico-mediatico-associazionistico consente di parlare, si contano sulle dita di una mano. Gli archivi dei giornali parlano da sé: della quarantina di casi di femminicidio di cui si è discusso sopra, la stampa ha seguito i processi di meno di una decina, che poi sono esattamente quelli avvenuti nel Nord Italia, in cui il carnefice era italiano e sprovvisto di caratteristiche che lo rendessero suscettibile di essere incluso nelle “categorie protette” di cui sopra. Il sistema sembra pertanto selezionare accuratamente quali vicende siano degne di “uscire dalla cronaca” (per citare un’espressione usata spesso dai commentatori televisivi) e quali no.
Alla luce di tutto ciò, perché tanto isterismo? Perché individui che hanno superato l’adolescenza da anni, se non decenni, trasformano casi di cronaca in bandiere con toni a metà strada tra film d’azione di Serie B e fiction barricadiere di Rai3? Perché si va a cercare il “colpevole perfetto” per potersi sfogare con le accuse collettive? A tali quesiti è difficile dare un’unica risposta.
Da una parte, l’ideologia spiega quasi tutto: bisogna portare avanti in un modo o nell’altro quelle rivoluzioni culturali, iniziate decenni fa, contro l’alienazione, la discriminazione, l’oppressione eccetera eccetera. Le parole all’ordine del giorno, nei frangenti in cui i sistema decide che un caso di cronaca è un “femminicidio”, ultimamente sono sempre le stesse: “educazione al rispetto e all’affettività”. Però, che significano, anche nei termini più astratti possibili? Da una prospettiva post-sessantottina, è arduo credere che una scuola in cui è vietato usare qualsiasi mezzo coercitivo dovrebbe prendersi l’onere di “rieducare” le nuove generazioni: e se il bulletto di turno non vuole imparare certe “frocerie” (gli insegnanti sentono quotidianamente questo tipo di linguaggio e stanno al gioco senza tanti problemi)? Gli si mette una nota? Lo si boccia? Gli si cancella il profilo TikTok? Ma questa per voi è tortura, andiamo…
C’è infine una dimensione più oscura e angosciante dietro il macabro teatrino, e riguarda quel che realmente vorrebbero le donne: nessun uomo (e tanto meno una donna) lo ha mai capito. Qual è il senso di trovarsi immersi in uno psicodramma collettivo, quando è evidente che in Italia non esiste più alcuna “cultura patriarcale”, e forse proprio a causa di ciò è consentito ingigantire ai limiti del delirio paranoico episodi irrilevanti o inesistenti a livello statistico (ma non umano o emotivo, sia chiaro)?
Ogni volta che un singolo e rarissimo caso di cronaca diventa una catapulta per mettere sotto accusa il “genere maschile” (sempre ridotto alle categorie di cui sopra, non lo ripeto più), mi pare che la reazione standard della maggior parte dei maschi, nella vita reale come nei social, sia quella di chiedere scusa, ammettere di essere in quanto uomini peggiori degli animali e domandare in ginocchio punizioni collettive esemplari.
Ma è questo ciò che chiedono le donne, dalle femministe più radicali alle damazze meloniane? A me non pare, poiché se tale fosse l’obiettivo solo un pazzo si rifiuterebbe di ammettere che esso sia stato raggiunto da tempo. Proviamo a fare un esperimento mentale, immaginando che le donne degli ultimi trent’anni vengano proiettate in un’Italia dove era ancora legale, per dire, il delitto d’onore. Se i maschi italiani fossero rimasti gli stessi di allora, e considerando altresì il lassismo del sistema penale attuale (è noto che ai nostri giorni chi si macchia di “femminicidio”, anche se bianco ecc, raramente riesce a stare in prigione per più di dieci-vent’anni), perché oggi non si conta minimo un’uccisione di una donna alla settimana, in un contesto in cui esse a livello di costumi sono libere di fare quel che vogliono, mettere in pratica comportamenti a rischio, lasciare, tradire, umiliare, aggredire, senza subire alcuna conseguenza?
È triste dover constatare che questi fantasmi di maschi bianchi italiani cattolici e patriarcali vengano regolarmente chiamati in causa con toni e argomentazioni che talvolta assumono la forma di una invocazione. Ma più gli uomini italiani frignano e si genuflettono, più vengono accusati di essere assassini e stupratori in incognito o in fieri: quale sarebbe la dinamica celata dietro tale follia? È possibile che questa dissonanza cognitiva sempre più evidente sia espressione di un malessere profondo e innominabile, di una mancanza, almeno a livello ideale, di figure in grado di offrire un senso, anche da una prospettiva totalmente “oppositiva”, all’essere donna oggi?