In tempi di guerra perpetua, una guerra intesa anche come “ritorno del rimosso”, improvviso e in parte inaspettato, quasi come una eco pre-istorica, anche la cultura tenta di adattarsi, sempre alla maniera della proverbiale -filosoficamente parlando- Nottola di Minerva. Perciò anche a livello accademico e internazionale ritornano alcuni “classici” (anch’essi inaspettati, perché dimenticati o sconosciuti) come il De iure belli del teologo cinquecentesco Francisco de Vitoria, caposcuola domenicano della Seconda Scolastica.
Si tratta di una Relectio (lezione solenne) sul “diritto di guerra” tenuta il 19 giugno 1539 a Salamanca. L’ottima curatela di Carlo Galli (2005) rievoca le circostanze particolari in cui la teologia iniziò a fare i conti col moderno. Nonostante il de Vitoria sia da alcuni tacciato di fornire la prima giustificazione storica al colonialismo (Todorov), in realtà la sua teorizzazione della “ingerenza umanitaria”, legittimata dal precetto di carità (il forte deve proteggere il debole), dalla teoria giusnaturalista aristotelico-tomista e dai residui dell’universalismo medievale, è molto più razionale e giusta degli umanitarismi contemporanei assortiti.
In primo luogo, perché il teologo stabilisce nettamente che la guerra santa non è per forza una guerra giusta (e viceversa: Causa iusti belli non est diversitas religionis); inoltre, sulla scia dello Stagirita, per il de Vitoria -e la sua scuola di pensiero- le comunità umane sono “perfette”, il potere politico è voluto da Dio e non è legittimato da un Pontefice (dal che consegue che la Spagna non “possiede” le Americhe).
Ancor più sorprendente che il dotto di Salamanca applichi lo stesso schema alla religione: essa si ritrova anche nell’Antico Testamento e presso gli infedeli, perciò è in sé naturale. Divisione fondamentale che forse sfugge alla sensibilità odierna: stabilire che il potere non è legittimato solo dalla legge divina è una sfumatura controriformistica, ché i “moderni” sono invece stati allattati al mito puritano della legittimità in base allo “stato di grazia” (e forse non possiamo nemmeno dire con certezze che le sortite americane degli ultimi decenni, o secoli, siano del tutto estranee a tale barbarie teologico-politica).
Il de Vitoria può di conseguenza essere benissimo assimilato alla “ragione” senza smettere di ragionare in ottica cattolica, persino quando afferma, con assoluta nonchalance, che il Papa non è dominus orbis ma gode solo di potestas indirecta, cioè può “ordinare le cose temporali come è opportuno per quelle spirituali” (e per questo Sisto V metterà all’Indice le sue lezioni).
In breve, questo sostiene de Vitoria, che ai cristiani è lecito fare la guerra perché essa è lecita nella legge di natura; che chiunque può intraprendere una guerra difensiva e ogni comunità politica ha l’autorità di dichiarare e condurre la guerra; che anche la guerra offensiva è consentita, se è contro un’ingiustizia; che una sola è la causa di guerra giusta, l’aver ricevuto un’offesa (mentre non è lecito combattere per espandere il dominio politico ecc.); peraltro la punizione deve essere commisurata al delitto, dunque non è lecito perseguire i responsabili di offese lievi.
Il principe che conduce una guerra giusta ha come giudice se stesso e può esigere dai nemici tutte le riparazioni, tuttavia non è sufficiente che il principe creda di avere una giusta causa, altrimenti anche le guerre dei turchi sarebbero giuste, in quanto essi credono di obbedire a Dio. Qui si teorizza in nuce addirittura l’obiezione di coscienza: se la guerra è palesemente ingiusta, il suddito può sottrarvisi, e anzi se l’ingiustizia è così evidente non vale nemmeno l’alibi dell’ignoranza, ché altrimenti sarebbero giustificati sia i soldati che hanno crocifisso Cristo sia gli infedeli che obbediscono ai loro prìncipi nelle guerre.
Un punto fermo per de Vitoria è che non è mai lecito uccidere l’innocente (fanciulli e donne), neppure nelle guerre contro gli infedeli (dunque non è nemmeno lecito uccidere i figli dei saraceni per prevenire peccati futuri). Incidentalmente è concesso solo durante un assedio, perché in caso contrario non si potrebbe neanche far la guerra e sarebbe frustrato il senso di giustizia universale; inoltre è consentito trarre in prigionia fanciulli e innocenti, così come è concesso espropriarli. Non è mai lecita l’atrocità e la disumanità, ma nelle guerre contro gli infedeli, essendo esse perpetue, si possono uccidere tutti i colpevoli, cosa invece esecrabile nel caso di guerre fra cristiani.
In conclusione, le regole fondamentali della guerra restano: quella di condurla non allo scopo di danneggiare il popolo contro cui si combatte, ma solo per conseguire il proprio diritto. Ottenuta la vittoria, è necessario approfittarne con moderazione e cristiana modestia.
Carlo Galli nella sua introduzione ci tiene a riportare l’interpretazione di Carl Schmitt che, da bravo “Nietzsche della politologia”, contestualizza, o addirittura “territorializza”, il de Vitoria nei solchi del suo tempo («La concretezza di Vitoria consiste per Schmitt nel fatto che egli è un monaco spagnolo ancora legato alla spazialità politica concreta della respublica christiana, dalla quale deriva […] un universalismo specificatamente cattolico»), non tanto per offrire una lettura reazionaria del pensatore, quanto per scongiurare il rischio che il nichilismo occidentale ne faccia un araldo allo scopo di trasformare la “pace dinamica” in polizia perpetua:
«L’assunto centrale della teoria della guerra giusta […], ovvero che sia possibile anche se non facile giustificare il male (la guerra), normarlo e limitarlo, a fin di bene, cioè di pace, corre il rischio di non risultare quello che vuole essere, cioè un discorso critico sulla guerra, e di rovesciarsi invece nell’opposto, ossia di essere attratto nella logica della potenza politica e di rivelarsi infine un discorso della guerra, un’ennesima giustificazione dell’antica schiavitù del conflitto armato, una funzione di autolegittimazione interna –per di più, inconsapevolmente– al nichilismo occidentale, ormai planetario».