Il candidato del Partito per la Libertà (Partij voor de Vrijheid, PVV) Geert Wilders è infine riuscito, come ampiamente previsto, a trionfare alle ultime elezioni olandesi. Non si sa perché ora venga tacciato di essere di “estrema destra” quando per anni ha rappresentato una figura assolutamente presentabile per il mainstream, sia per la sua ferrea islamofobia che per l’altrettanto intransigente sostegno ad Israele.
È alla pari risibile che Wilders venga definito come il “Trump olandese” quando è in politica da quasi vent’anni e rappresenta per certi versi il prototipo del politico europeo sovranista-populista (che in ultima analisi può farsi eleggere solo se promette di adottare leggi a favore di Israele).
In Olanda si è molto speculato sulle origini “esotiche” di Wilders: è noto infatti che sua madre sia nata nelle Indie orientali olandesi da un addetto all’amministrazione coloniale e dalla discendente di un’antica famiglia ebraico-indonesiana. Riguardo al milieu indo, il politico sembra aver cercato di nascondere questo tocco di “colore” (senza offesa) cominciando, a partire dai trent’anni, a ossigenarsi i capelli e indossare lenti blu.
Invece, per quanto concerne quella goccia di sangue semita, come intuibile il buon Wilders ha fatto di tutto per sfruttarla, anche se al contempo ha sempre tenuto a mostrare un filosemitismo di matrice fortemente “ideologica” e non etnica (il fatto che abbia anche sposato un’ebrea, Krisztina Márfai cambia di poco la questione).
Le sue dichiarazioni a favore dello Stato ebraico non si contano: nel corso degli ultimi anni è riuscito ad affermare che “Noi olandesi siamo tutti Israele” e che “Israele è la prima linea di difesa dell’Occidente”, mentre nel 2010 si è lanciato in una filippica a favore del conferimento di uno status speciale alla nazione sionista nelle relazioni diplomatiche di Amsterdam per il motivo che gli ebrei “combattono per Gerusalemme nel nome dell’Occidente”, affinché non cada preda della “barbarie islamica”.
Wilders ha vissuto due anni in Israele e si è recato decine di volte in visita nello Stato ebraico, ma gli ebrei olandesi lo tengono a debita distanza perché le sue posizioni sull’immigrazione lo imbarazzano molto, nonostante egli voglia applicare semplicemente una “soluzione sionista” al problema in Europa, per esempio adottando il dispositivo della “detenzione amministrativa” che gli israeliani usano per arrestare i palestinesi senza prove né processi.
Dal canto suo, la stampa israeliana ha pubblicato articoli piuttosto aggressivi contro Wilders. Per esempio, nel 2017 il Times of Israel ha scritto che “Geert Wilders è un ebreo. Sua madre era al cento per cento ebrea. Se avessero vissuto in Europa 80 anni fa, i suoi capelli tinti e i suoi discorsi razzisti non lo avrebbero salvato dalle camere a gas“. Il Nostro però tira dritto e addirittura si fa indottrinare dall’ideologo del Partito e suo braccio destro, Martin Bosma, sulle eroiche gesta di Vladimir Žabotinskij, il padrino del nazionalismo sionista.
Esiste tuttavia una parte dell’ebraismo che sostiene il “Mozart del populismo”, ed è quello americano di simpatie conservatrici, che ha imparato a conoscerlo e ad apprezzarlo a seguito del successo internazionale ottenuto dal documentario islamofobo di un quarto d’ora Fitna, prodotto e girato dallo stesso Wilders nel 2008 con lo pseudonimo di “Primula Rossa”, il quale invece è stato condannato dal Comitato Ebraico Centrale olandese per aver alimentato i pregiudizi eccetera eccetera.
Visto che si parla di cinema, possiamo affermare che anche il Trionfo di Wilders è un film già visto: probabilmente l’unica promessa che il “leader di ultradestra” manterrà sarà quella di spostare l’ambasciata olandese in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme. Alla fin fine, che importa del resto ai “sovranisti”?