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Geopolitichese

(“Repubblica“)

Sono contento che la Turchia sia tornata a essere una nazione simpatica. Grazie al riallineamento di Ankara all’Impero del Bene (la Russia di Putin, ça va sans dire), ora persino “Eurasia” (Geopolitica dell’ortodossia, 22 settembre 2016) può rispolverare il caro vecchio Konstantin Leont’ev e la sua un’unione panbizantina comprendente Mosca, Costantinopoli (nickname “Istanbul”) e le altre terre sante divise tra la Mezzaluna islamica («che dai Balcani giunge al Caucaso attraverso l’Anatolia») e la “Croce ortodossa” («l’asse della quale, radicato in Palestina, attraversa l’isola di Cipro e giunge a Costantinopoli, per dirigersi poi verso la Romania, dove si congiungono i due bracci: quello serbo e quello russo»).

Tale progetto verrà finalmente agevolato dal «caratteristico rapporto con la terra» del cristianesimo ortodosso, che la rende «particolarmente idonea all’approccio geopolitico»; sempre che a qualcuno non venga in mente di ripetere lo stesso discorso per una qualsiasi delle altre religioni.

Non vorrei sembrare irriverente, ma se l’espressione “geopolitica” ha davvero un senso, ciò dovrebbe allora comportare una necessaria riduzione della componente religiosa a «dato secondario o sovrastrutturale» (per citare ancora “Eurasia”).

È da anni che invece non si fa che parlare di geopolitica, senza poi giungere a qualche indicazione pratica sulle mosse ad adottare a livello internazionale (a parte sperare nell’effetto Pigmalione); lungi quindi dal rappresentare una visione spregiudicata e realistica, la geopolitica si rivela essere la botola da cui tutta una serie di elementi secondari (a volte convergenti nel più ottuso dei bigottismi) possono rientrare nel discorso politico e contribuire nuovamente a distorcere le interpretazioni dei reali rapporti di forza. Così si finisce per prendere fischi per fiaschi, come è accaduto al buon Samuel Huntington quando con la sua delirante teoria sullo “scontro di civiltà”, predisse che la parte “ortodossa” dell’Ucraina sarebbe pacificamente confluita in un blocco filo-russo, extra-europeo e anti-americano, composto dalle repubbliche sovietiche asiatiche, dalla Grecia e da Cipro.

Sappiamo come è andata, ma non contesto a eurasisti e geopoliticanti il fatto di non possedere la sfera di cristallo; semplicemente respingo l’approccio moralistico verso chi si rifiuta di seguire i loro postulati. Per esempio, ho sempre trovato ipocrita (e anche irritante) l’atteggiamento nei confronti dei movimenti nazionalistici e di estrema destra dell’Europa orientale. Mi domando, infatti, a quale santo dovrebbero votarsi polacchi, ucraini o estoni, per resistere sia all’imperialismo russo che a quello europeista.

Quando il famigerato Aleksander Dugin denuncia che «le forze atlantiste [sponsorizzano] da anni i cosiddetti nazionaldemocratici, i “nazdem”, una estrema destra filo-atlantista, filo-americana, razzista, anti-putiniana, anti-ortodossa», dimentica però di spiegare perché questi destrorsi preferiscono affidarsi all’“Impero del Male” piuttosto che piegarsi docilmente a Mosca.

Dal momento che Dugin si considera ancora un analista (e non soltanto un mero propagandista), dovrebbe guardare alla questione in modo più obiettivo: o i polacchi sono così stupidi e malvagi che non vale neppure la pena di spiegare loro i poteri taumaturgici di Vladimir Putin?

Siamo seri: per molti popoli di quell’area l’alleanza con Washington è un’opportunità per poter negoziare meglio con i prepotenti vicini. Il motivo principale per cui tanti Paesi desiderano entrare nella NATO è appunto una questione geopolitica: se Estonia o Georgia fossero isole dei Caraibi, chiaramente terrebbero un atteggiamento differente nei confronti della Russia e degli Stati Uniti. Eppure ciò che è consentito a Cuba (un modello di libertà, democrazia e giustizia sociale da sempre esaltato dagli eurasisti), diventa invece deprecabile se lo mette in atto qualsiasi altra nazione.

Non dico che sono da un passo a metter mano alla pistola quando sento la parola “geopolitica”, però guardo con preoccupazione alla malia che tale formula magica esercita su tutti i commentatori politici, soprattutto quelli con cui condivido molte opinioni.

Il “geopolitichese” è diventato una supercazzola con cui si tenta di far passare l’idea che i rapporti internazionali siano influenzati praticamente da tutto (dalla religione alle preferenze sessuali) tranne che… dalla geografia!

Per il resto, sono assolutamente disposto a riconoscere le ragioni geopolitiche di qualsiasi nazione: per esempio, ho difeso il diritto dei russi ad adottare una legge come la cosiddetta “Legge Jarovaja”, che se da una prospettiva assoluta può essere interpretata come un provvedimento liberticida, in rapporto alla iustissima tellus ha il suo senso, considerando che Mosca non può permettersi una totale e indiscriminata libertà religiosa senza mettere a rischio la propria integrità territoriale.

Al contrario, vedo che negli stessi commentatori di cui sopra non esiste alcuna “coscienza geopolitica” nel momento in cui si esaltano ogni volta che, per dirne una, il nostro attuale Presidente del consiglio propone la sospensione delle sanzioni contro la Russia. Ecco i disastri che produce un’utopia incapace di riconoscersi come tale. Come si può fingere di non vedere che l’Italia di oggi non ha più quella libertà di movimento consentitagli un tempo dal solo vincolo del Patto Atlantico, essendo confluita in una super-nazione incompiuta nota come “Unione Europea”? (Lo stesso discorso vale per la Grecia, come dimostra il timido tentativo di Tsipras –immediatamente naufragato– di “guardare a Est”).

Se davvero avessimo una visione geopolitica della situazione, più che considerare Renzi un’aquila dovremmo trattarlo come un pollo (non mi pare una cosa difficile), dal momento che facendo passare la posizione “filo-russa” come esclusiva dell’Italia (mentre moltissimi altre nazioni europee, Germania e Francia in primis, non vedono l’ora di finirla con le sanzioni), ci trasforma in un comodo capro espiatorio per quei Paesi come Polonia o Estonia che hanno voluto punire Mosca ma ci hanno rimesso enormemente dal punto di vista economico. Quando gli stessi un giorno verranno a presentarci il conto col pretesto delle nostre fantomatiche posizioni filo-russe, dovremmo ringraziare non solo Renzi, ma tutti quelli che assumono un atteggiamento infantile e fazioso verso questioni che invece richiederebbero il massimo della freddezza.

Sarebbe stato forse meglio ascoltare il suggerimento lanciatoci un anno fa dall’ineffabile Stiglitz, quando dichiarò al “Corriere” che «la Germania ha commesso il profondo errore strategico di diventare troppo dipendente dal gas russo. Si è messa nella posizione in cui il suo interesse e quello del mondo libero sono diversi» (L’America resta lontana. L’Europa faccia da sola, 26 novembre 2015). Non nego che Renzi abbia recepito qualcosa, se subito dopo ha cercato di contrastare (come al solito solo a parole e “pugni sbattuti”) l’ampliamento del gasdotto Nord Stream ponendolo in contraddizione con le sanzioni. Tuttavia, anche volendo porre tale obiezione nell’ottica di un’opportunistica politica volta a sfruttare l’“amico americano”, non possiamo ignorare che gli Stati Uniti non sono interessati ad un alleato con le mani (e i piedi) legati, e probabilmente provano imbarazzo per la posizione in cui ha voluto mettersi la stessa Italia che fino a qualche decennio fa li faceva tribolare col suo doppiogiochismo.

D’altronde è noto che uno dei fattori a causa dei quali i rapporti tra Stati Uniti e Russia si sono inaspriti è stata la mancanza di un argine “europeista” all’egemonia tedesca. Non è un caso che gli ultimi appuntamenti internazionali di Obama siano stati una cena col Premier italiano, una visita in Grecia e una in Germania: è il suggello di una linea politica ormai sbaragliata dagli eventi. Riconosciamo almeno gli sforzi degli americani per tenere assieme l’Unione: hanno aumentato le coreografie militari a Est, hanno impedito ai tedeschi di cacciare Atene dall’eurozona e, ciliegina sulla torta, hanno fatto scoppiare i casi Volkswagen e Deutsche Bank.

Questo continente immaginario di fatto doveva essere il capolavoro della dirigenza democratica statunitense, che avrebbe voluto disporre di un’unità territoriale capace di bilanciare gli interessi contrapposti di francesi e tedeschi (ma anche di svedesi e bosniaci), una specie di socialdemocrazia a ispirazione islamica con la bandiera arcobaleno come vessillo, che rappresentasse sia una testa di ponte per il Medio Oriente che un disciplinato partner commerciale.

Le cose sono andate storte (ma questo pochi lo raccontano) quando la Germania ha voluto approfittare nuovamente di una crisi umanitaria (come era accaduto negli anni ’90 durante le guerre balcaniche) per proseguire con altri mezzi la politica del beggar-thy-neighbour. In tal modo, invece di gestire le masse di profughi come se fosse un corridoio umanitario, l’Europa a trazione tedesca ha “prosciugato” la resistenza siriana messa in piedi da Stati Uniti e petromonarchie, inserendosi così come terzo incomodo in una “guerra per procura” che doveva invece riguardare i vecchi nemici di sempre.

Insomma, la Germania ha fatto della “cattiva” geopolitica, nel senso che si è illusa di avere la piena podestà in un “cortile” concessogli solamente in affitto. È il solito errore che i tedeschi fanno da quando hanno iniziato a misurare la loro storia in Reich: come Hitler voleva creare in dodici anni un doppione continentale dell’Impero britannico, allo stesso modo le odierne élites tedesche (non diciamo Angela Merkel, che politicamente e forse anche umanamente vale ben poco) hanno tentato di replicare quello che gli Stati Uniti sono riusciti fare in due secoli e mezzo (nei quali ci sono stati anche un genocidio, una guerra civile e altre cose).

Anche l’atteggiamento ambiguo di Berlino nei confronti della Russia ha costretto gli americani a iniziative paradossali, come portare allo scoperto l’alleanza informale con Teheran e al contempo intensificare l’interventismo in Siria per non scontentare l’emiro del Qatar e i sauditi, oppure insistere per la rimozione di Assad nonostante l’aperta sconfessione delle “primavere arabe” con l’appoggio di al-Sisi.

Ora, se questa lettura ha un senso, l’ultima visita di Obama in Germania dovrebbe essere il canto del cigno di una linea politica che si è rivelata fallimentare. Il Nobel per la Pace ha continuato a recitare la parte per la gloria dell’impero, accontentandosi di passare alla storia come un Jimmy Carter più effeminato. Tanto è vero che nel giro di poco tempo plausibilmente accadrà il contrario di quel che ha promesso il presidente uscente: le sanzioni alla Russia saranno abolite, il debito della Grecia non verrà “ristrutturato” per consentirle di rimanere nell’eurozona, l’Unione Europea si dissolverà, la NATO non avrà più carattere vincolante e la Germania dovrà ridimensionare le proprie aspettative micro-imperialistiche. E così dovranno fare pure gli esaltati che ora vedono nella Brexit e nell’elezione di Trump l’opportunità della nascita di una “Nazione Eurasiatica” da Lisbona a Vladivostok e di un esercito europeo unificato: come se agli americani interessasse avere una Germania povera (peraltro a causa della sua stessa miopia politica ed economica) e armata fino ai denti (perché è chiaro che un fantomatico esercito europeo sarebbe gestito dai tedeschi, come da prassi da qualche anno a questa parte).

Chiaramente anch’io potrei prendere una cantonata tremenda, ma è pur sempre una soddisfazione (almeno personale) provare a leggere la situazione con categorie differenti da quelle estetiche o morali. Che sono poi quelle del “geopolitichese”, il gergo che traduce quanto appena detto in “Obama cattivo, Trump buono”, oppure “Erdoğan brutto, al-Sisi buono”.

Penso che un giorno diventerà necessario chiarire gli equivoci che il geopolitichese ha generato, specialmente a destra. Credo ciò sia dovuto in parte all’ambiguità stessa della disciplina, che fu creata da un geografo edoardiano per la gloria dell’impero britannico e venne adottata da un affabulatore (scil. cazzaro) russo per legittimare la slavofilia in un’epoca di secolarizzazione totale. A questo si aggiunge i complicati rapporti che intercorrono tra destra e nichilismo, un’aporia che si vorrebbe risolvere condannandosi al sovrastrutturalismo (o, per dirla meglio, raccontandosi favole).

Una volta andava di moda l’abenteuerliche Simplicissimus, poi l’abenteuerliche Herz di Jünger, oggi la “geopolitica di questo e quello”. Forse sarebbe il caso di tornare alla meno avventurosa geografia, che almeno ci ricorda che la Lituania non fa parte delle Antille.

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