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Geoteologica: religione, geografia e altre catastrofi per l’umanità

L’emergere di un nuovo campo di studi è sempre un evento entusiasmante, soprattutto in un’epoca dove ogni settore dello scibile pare intaccato dal politicamente corretto, tendenza che obbliga alla spasmodica ricerca di un qualsiasi Speakers’ Corner ancora incontaminato. Proprio per questo, mi piace segnalare la nascita di una sorta di “geografia della religione”, che si potrebbe addirittura definire geoteologia, nonostante serpeggi fra gli studiosi ancora una qualche incertezza sul nome da conferire alla disciplina, che peraltro obbligherebbe ad accettare una definizione univoca di “religione” o “teologia” (perché quella di “geografia”, a quanto pare, non crea alcun problema).

Ad ogni modo il connubio “geografia e religione” sembra prometter bene, se la studiosa Lily Kong (rettrice della Singapore Management University) può permettersi di osservare che la “ghettizzazione” etnico-religiosa, culturale e/o identitaria degli immigrati, camuffata a volte sotto la rassicurante etichetta di “comunitarismo”, «si traduce in una sorveglianza continua da parte degli altri membri della “comunità” sui comportamenti e le azioni altrui […]: la “comunità” è una fonte di sicurezza e forza, ma anche di coercizione e oppressione» (cfr. Mapping “New” Geographies of Religion: Politics and Poetics in Modernity, “Progress in Human Geography”, 25/2, 2001, p. 222; l’Autrice in tal caso si riferisce alle giovani musulmane britanniche).

La stessa Kong osserva in altro luogo, con impercettibile disagio, che la ricerca geografica sulle religioni nell’ultimo decennio ha privilegiato perlopiù lo studio dell’islam (in particolare quello degli immigrati in Paesi non-islamici), cosa che la porta ad affermare out of nowhere che «nonostante la retorica ufficiale a base di multiculturalismo, gli spazi sacri sono spesso al centro di forti contestazioni, con la resistenza diffusa da parte delle comunità all’insediamento di siti religiosi “forestieri”» (cfr. Global Shifts, Theoretical Shifts: Changing Geographies of Religion, “Progress in Human Geography”, 34/6, 2010, p. 757.).

In effetti sembra che la luna di miele tra la materia in fieri e le esigenze dell’islamicamente corretto si sia già consumata nei primi anni del nostro secolo, imponendo una direzione obbligata a quella che poteva essere una branca di studi finalmente originale. Lascia già profondamente perplessi la prospettiva di come tutto ciò possa giungere in Italia, specie nelle circostanze attuali, dove l’accademia, soggiogata dalle paranoia dell’islamofobia, è sostanzialmente impegnata a fare della sharia una sorta di avanguardia dei diritti dell’uomo. Amen (Āmīn, anzi); ma non vorrei che un giorno ci ritrovassimo tra i piedi una “geografia religiosa” pensata esclusivamente come miracolosa risposta alla questione di dove erigere la Grande Moschea di Milano.

Sarebbe davvero un’eventualità spiacevole, soprattutto perché la Geography of Religion offre strumenti per questioni più che attuali: per esempio, i motivi per cui il terrorismo islamico, se dovesse colpire in Italia, sceglierà probabilmente Milano e non Roma, in base all’unica Rumiyah conosciuta da Maometto, la sventurata Istanbul ritornata suo malgrado bizantina per la peccaminosa influenza occidentale.

Certo, è paradossale che dopo aver paventato l’islamizzazione della nuova disciplina, anche qui si debba partire dall’islam, per giunta dal “terrorismo islamico” (espressioni spesso tabù per i media mainstream); ma in verità, a parte le polemiche, persino da tale prospettiva potrebbero scaturite ricerche degne di attenzione: pensiamo all’esistenza dei “musulmani delle montagne” nel Caucaso e nei Balcani, e al modo in cui la particolare conformazione orografica del territorio ne abbia influenzato la pratica religiosa, nonché l’arte e la letteratura.

Lasciamo però perdere l’islam, e allarghiamo l’orizzonte con qualche annotazione più seria. In primo luogo, nemmeno la definizione di “geografia”, come si notava, è indenne dalla problematizzazione, tanto che se «la sacralizzazione dello spazio include una moltiplicazione di significati, nella quale le risorse fisiche si trasformano in un “surplus” di significato» (cfr. D. Chidester – E.T. Linenthal, American sacred space, 1995; cit. in. A. Ivakhiv, Toward a Geography of “Religion”: Mapping. Distribution of an Unstable Signifier, “Annals of the Association of American Geographers”, 96/1, 2006, p. 171), allora è possibile che una formula come “psicogeografia” sia più attinente alle questioni che si vogliono affrontare, in particolare se si parte dal presupposto che «while religion’s impact on the landscape has been plentifully investigated, the reverse has not been true» (ancora la Kong).

Un caso di studio “psicogeografico” (a dirla tutta più “psico” che altro) è la deformazione del senso della Peregrinatio Compostellana, che negli ultimi decenni è andata incorporando vizi e virtù dell’eudemonismo contemporaneo, tra escursionismo “storico” e “culturale” (e magari persino “europeo”) e l’esoterismo a buon mercato di un Paulo Coelho.

Ancor più “psico”, la frontiera dell’etere, purtroppo solo accennata dalla Kong, che pone la domanda decisiva «Come gli Stati affrontano l’influenza delle trasmissioni religiose internazionali?», purtroppo senza dare alcuna risposta (e fermandosi al televisore, perché internet appare forse troppo avveniristico). Anche questo tema è comunque coinvolgente: da un’ottica squisitamente “videocratica” sarebbe possibile, per esempio, stabilire chi faccia più “proseliti” in un Paese come l’Albania, tra le dirette vaticane della Rai e gli innumerevoli adattamenti locali dei canali coranici che imperversano dalla Svizzera al Qatar.

Forse a questa domanda la geografia religiosa già non potrebbe più dare alcuna risposta, ormai mossa com’è (nota sempre Lily Kong) dall’intento moralistico di denunciare la cosiddetta “islamofobia” delle anguste e oppressive società occidentali. E siamo tornati al punto dolente, per l’ennesima volta: l’insopportabile orientalismo d’accatto dell’intellighenzia contemporanea, che talvolta diventa idolatria tout court per gli oscurantismi altrui (col quale poi si coglie l’occasione per esercitare un paternalismo più o meno involontario).

Quindi è prevedibile, come accennato, che in Italia la “geografia religiosa” si interesserà solo della “Moschea Abusiva di via Puppa a Sucate” (una trollata nel quale cadde l’allora candidata sindaco a Milano Letizia Moratti) e non, giusto per citare, di quella che Erdoğan ha fatto costruire all’Avana per attestare che sono stati i musulmani i veri scopritori del Nuovo Mondo.

Non vorrei però concludere con le solite polemicucce: il panorama, nonostante tutto, è ancora vasto. Si pensi alla Finlandia, un altro caso affrontato en passant sempre dalla Kong: «[In questo Paese] la cultura luterana dominante percepisce la cultura religiosa ortodossa sia come un valore nazionale […] sia come un’intrusione straniera, associata all’oppressione russa e a una falsa idea di cristianità» (Mapping “New” Geographies of Religion, cit., p. 216).

Ancor più che in Scandinavia, la dissociazione si esperisce con particolare intensità sul Baltico, nel microcosmo estone che, essendo stato occupato per decenni (a differenza di quello finlandese) dai fratelli russi, accetta il cristianesimo praticamente solo nelle forme del consumismo occidentale (seppur filtrato dalle austere forme del protestantesimo e del paganesimo nordico) e considera i residui etnici, folklorici e architettonici di ortodossia come espressione di imperialismo culturale. In tal caso, è ancora la psicogeografia ad avere l’ultima parola sulla geografia (nello stesso ordine di idee che recentemente ha portato un conduttore televisivo a definire il Canada una “nazione scandinava”).

Ecco, forse l’Estonia potrebbe andare bene come laboratorio per le ricerche future, dal momento che Wikipedia attesta che il Paese has one of the smallest Muslim communities in Europe (perlopiù immigrati azeri o turchi), e che l’unica “moschea” del Paese è in un appartamento di Tallinn.

Mappa delle religioni in Estonia (in grigio chi si dichiara “non religioso”)
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