Alla fine Roma non ha avuto un Giovanni XXIV come aveva auspicato Bergoglio, ma un Leone XIV. Meglio così, forse, anche perché la scelta di Roncalli a suo tempo suscitò qualche malumore sull’eventualità che il nome di un antipapa potesse portare jella. Ad ogni modo, quando l’ei fu Papa Francesco evocò uno Ioannes XXIV si presentarono alla mia memoria alcune letturacce giovanili di fantascienza, come Il Papa Negro di Emilio Cavaterra (ma meglio negro che trans, come invece avrei potuto immaginare se fosse stato nominato un Innocenzo XIV) e, soprattutto Roma senza papa, il capolavoro distopico di Guido Morselli (scritto tra il 1966 e il 1967 ma pubblicato postumo nel 1974 da Adelphi), dove fa capolino un fantasmagorico Giovanni XXIV, benedettino irlandese, “il più bel Papa dei tempi moderni”, di tendenza progressista, che segue le orme modernizzanti del suo predecessore (turco) Libero I, ma la cui più grande “rivoluzione” alla fine si riduce a trasferire la sede papale da Roma a Zagarolo.
Ciò che più mi ha sempre colpito del volume, che è la vera “profezia” fra tante trovate comunque suggestive (la colonizzazione elvetica della Luna, il Pontefice corteggiato a mezzo stampa da Jacqueline Kennedy, l’unificazione tra cattolici e anglicani, la canonizzazione di De Gasperi, la guerra fredda esportata su altri pianeti) è solamente quella di un’Italia ridotta a Paese “hôtelizzato” (sic), costretta a mantenersi con l’unica risorsa del turismo (anche sessuale).
Più che come predizione, tuttavia, l’immagine vale più come conseguenza -quasi scontata- dei risultati a cui certe scelte in campo politico ed economico, evidentemente già circolanti da tempo tra i gradi del potere grigio nazionale (e internazionale), avrebbero portato:
«Da quando l’Italia ha chiuso altiforni e officine per dedicarsi a quest’unica industria congeniale [la prostituzione], il turismo si è ingigantito e le permette un livello di vita pressoché europeo.
[…] Edificata l’Europa, gli Italiani si sentono tutti indistintamente retrocessi a “Sud” […] e tutti amaramente spregiati, incompresi, sfruttati, da “quelli là del nord”, lussemburghesi, francesi, belgi o tedeschi. La proposta, avanzata da un tedesco al Parlamento federale, di hôtelizzare definitivamente il paese, è vista come un oltraggio.
“Ci hanno detto”, lamentava [l’Onorevole] Baldassarrinucci, “che le nostre fabbriche di auto, di frigoriferi, erano relitti anti-economici di un passato autarchico. ‘Da voi, solo il sole’. Così ci hanno detto, questi yankee del Reno!”».
La questione è in effetti più complessa di come viene presentata da governanti e opinionisti: non basta ripetere ossessivamente che “la cultura è il nostro petrolio” o che l’Italia può diventare “il villaggio turistico del mondo”. Per capire meglio di cosa stiamo parlando, sarebbe utile distinguere il turismo dal Tourismo, che è qualcosa di più che dotarsi di strutture per l’accoglienza del maggior numero di visitatori possibile, ma attiene una rivoluzione politica, culturale ed economica che dovrebbe (come da etimo) riportare il Bel Paese nelle condizioni in cui serviva solo da fondale per il Grand Tour. Nel concreto, ciò significa ricacciare l’Italia indietro di secoli attraverso un processo di de-industrializzazione feroce, la cui pericolosità è a malapena occultabile dietro i miti arcadici dell’ecologismo.
Tale “industria”, d’altro canto, è più statica di quanto comunemente si lasci intendere: il grande patrimonio artistico italiano si può valorizzare finché si vuole ma, per dirla brutalmente, i monumenti non si possono spostare da un luogo all’altro. Di conseguenza, per fare del turismo l’unica e sola industria nazionale bisognerà disgregare la nazione stessa, esaltando l’autonomia regionale fino all’anarchia. Tout se tient: i microcosmi goethiani hanno storicamente la forma degli Stati preunitari, e se oggi si vuole renderli appetibili non solo per i rampolli della classe agiata internazionale (oggi anche levantina, slava e orientale), ma anche per i ceti medio-bassi, si dovrà come minimo accettare una dissoluzione della centralità del potere per via burocratica.
A livello culturale, si dovranno poi convincere gli indigeni della straordinarietà di un paesaggio di cui anch’essi devono diventare fruitori. Questo in una Italia in cui “vacanza” per decenni ha significato il ritorno al paesello natio, e non per un pellegrinaggio spirituale verso le origini o un viaggio poetico alle radici del proprio essere, ma soprattutto per penuria di mezzi. L’ansia dell’intrattenimento intelligente (musei, sagre, concerti folk) non potrà che imporsi con un gravoso lavorio di auto-suggestione collettiva. Anche qui, bisognerà nuovamente fare gli italiani (ovvero, dalla prospettiva risorgimentale, disfarli) e convincerli, per esempio, che quella chiesa diroccata del dolce paese è suggestiva non perché ha qualcosa a che fare con la propria infanzia, ma in quanto immobile di interesse storico, artistico e monumentale.
La novella “rivoluzione culturale” dovrà includere per forza anche quello che Morselli definisce, per bocca dei romanacci del suo romanzo, “il mignottismo delle ragazze italiane con i forestieri”. La prostituzione è stata sempre parte integrante del Grand Tour, già molto prima che il Marchese de Sade svernasse tra Firenze e Napoli, ma per venire incontro a un turismo sessuale di massa (di stampo thailandese, per intendersi) non basterà il solito “accordo tra gentiluomini”: servirà un vero e proprio piano nazionale. Il che ora come ora sembra impossibile: non tanto per la presenza della Chiesa cattolica nel Paese (lo Stato Pontificio ha per secoli ospitato un’efficientissima rete di lupanari gestiti direttamente dalla Curia), quanto per la famosa egemonia culturale che si estende anche alle questioni di moralità pubblica.
In Roma senza Papa, del resto, il fatto che il turismo sia divenuto “unica industria congeniale” al Paese comporta sia uno stravolgimento della Città Eterna, con il Vaticano trasformato in un museo, sia una vera e propria trasformazione antropologica dell’italiano, il quale ora è divenuto rappresentante della nuova categoria di Homo Vagans, l’essere che vive solo per fare viaggetti e basa la sua esistenza esclusivamente su tale prospettiva.
E a proposito di frammentazione territoriale, è interessante che nel romanzo a un certo punto i gesuiti ottengano enormi concessioni “a sud di Napoli” per introdurre un “regime collettivizzante” a metà strada tra le reducciones e le fattorie sovietiche, puntando proprio su turismo, agricoltura e allevamento.
Suscita una certa inquietudine, infine, l’accostamento dell’opera di Morselli e con saggio cult di Antonio Venier, Il disastro di una nazione (1999), prefato nientedimeno che da Bettino Craxi. La fine delle ambizioni industriali dell’Italia, in quanto nazione corrotta, poco competitiva e politicamente instabile, meritevole quindi di vedersi saccheggiata dei suoi gioielli dai capitali esteri, combaciano con la celebrazione del turismo, che agli occhi disincantati di Venier risulta una “attività dequalificante come poche”, poiché non crea competenze e specializzazioni, ma favorisce la precarizzazione permanente della forza-lavoro e la degradazione del livello di vita collettivo.
Peccato davvero che questa sia l’unico scenario fantapolitico avveratosi con tutto lo squallore legato all’Italia degli ultimi trent’anni, sarebbe stato forse più dilettevole discutere, col senno di poi, della minaccia di un golpe per ripristinare il campionato di calcio:
«Il governo aveva deciso la riduzione allo stato dilettantistico, o “deprofessionalizzazione”, dei giocatori delle squadre di calcio, nonché un taglio del 60% nei loro emolumenti. Da Ferrara a Siracusa la piazza insorse. A Roma, gli insorti occuparono il Campidoglio e fu proclamata la Repubblica autonoma della Lazio (Si noti, non del Lazio, che è una circoscrizione amministrativa includente la capitale, ma della Lazio: titolo di una squadra di calcio romana), alla cui testa si pose un decemvirato di cittadini “tifosi”, cioè appassionati spettatori del gioco, o capi delle associazioni interessate. Fra loro spiccava un religioso, frate Marcello per l’appunto, il quale arringava il popolo dai balconi capitolini con accenti incandescenti, però anche con quella ornata abbondanza (qui chiamata “la retorica”) di cui gli italiani sono tifosi non meno che del calcio. Lo stile Cola di Rienzo del frate in tonaca e cordiglio, affacciato al più illustre palazzo d’Europa, era complessivamente perfetto. Lucido e imperatorio, il giovane Marcello aveva tuttavia, come in genere i suoi compatrioti, un temperamento realistico. Accettò di trattare col presidente legale della Repubblica, rimasto al Quirinale. Qualcuno lo ha accusato di tradimento, ma Degli Esposti lo difende. Frate Marcello fece nelle circostanze quanto era possibile e ottenne il massimo che si poteva sperare, dato poi che Presidente della Repubblica era un uomo di notoria scaltrezza e tenacissimo, Amintore Fanfani. L’autorità venne a patti e concesse, a Roma e nell’intera Penisola, per i rivoltosi l’amnistia e per i giocatori piena reintegrazione nei loro diritti. Si rimangiò i provvedimenti e con ciò l’ordine fu ristabilito».