Giuseppe Pecchio in Grecia

A proposito di Giuseppe Pecchio, patriota risorgimentale del quale abbiamo appena citato una conturbante prosa, notiamo che mentre in Italia è completamente dimenticato, al contrario in Grecia qualcuno se lo ricorda ancora. Basta solo confrontare la pagina della nostra Wikipedia (quattro righe in tutto), con quella ellenica, che celebra Iosif Pekkio quasi come uno dei “suoi” patrioti.

Infatti, Pecchio, dall’esilio inglese a Brighton (per aver partecipato ai moti del 1820-1821), diventò uno dei referenti del London Philhellenic Committee, «incaricato di consegnare ai rivoluzionari greci dei fondi di sostegno all’insurrezione contro l’Impero ottomano» (“Treccani”).

Nel 1825 si recò appunto in Grecia e incontrò diversi patrioti, tra i quali Georgios Karaiskakis e il generale Theodoros Kolokotronis, all’epoca imprigionato a causa di una di quelle guerre civili che costellarono l’Epanastasi.

Questo il resoconto degli incontri più importanti avvenuti nella Grecia rivoluzionaria riportati dalla stessa penna di Pecchio (tratto dal Relazione degli avvenimenti della Grecia nella primavera del 1825):

«Il primo che visitai col generale Roche, fu il generale Giorgio Caraiscachi epirota nativo di Arta. Egli era alloggiato in un meschino abituro fuori della porta di Argos. Stava seduto sur un tappeto sfarzosamente vestito a ricami d’oro e d’argento. Vicino dalla parete gli pendeva il fucile coperto d’arabeschi d’argento, La camera era affollata di soldati, dei quali un drappello non abbandona mai il suo capo, e lo segue dappertutto. Caraiscachi era un Klefta di mestiere prima della rivoluzione. È di una statura media, asciutto di persona, coll’astuzia dipinta in volto, pronto nelle risposte. Il generale Roche, per mezzo di un interprete, introdusse seco lui il discorso, su vari soggetti politici. Egli con aria ironica si schermiva con molta destrezza sui punti più delicati. Richiesto dal generale, se credeva utile che l’assemblea nazionale del prossimo ottobre, dovesse prolungare la durata del governo sino a cinque anni invece di un anno solo, replicò che i soldati non devono occuparsi di simili indagini; essi non sono tenuti che ad obbedire. Poiché avete veduto, soggiunse il generale, nell’ultimo combattimento la superiorità, che la disciplina europea ottiene sopra il solo coraggio, non siete voi d’opinione che sarebbe utile per la Grecia di assoldare un corpo di truppe regolari americane, onde opporle alle truppe regolari d’Ibraim Bascià? Credo anch’io che lo sarebbe, rispose l’astuto Klefta, ma temo che la Grecia non sia in grado di riceverli e trattarli come essi sono usi di esserlo in Europa. Il generale proseguì: non credete voi bene che il governo perdoni a Colocotroni, onde rimetterlo di nuovo alla testa dell’esercito in questo importante momento? A questa interrogazione un vecchio guerriero, che mi stava al fianco, rispose “Ben infelice è quella nazione, la cui sorte dipende da un sol uomo; è meglio perire che dipendere da un uomo”. Quegli che pronunziò questa sentenza, degna degli antichi tempi, fu Gioia Pano di Suli, tenente-colonnello. Egli servì lungo tempo in uno dei reggimenti albanesi che, molti anni fa, erano al soldo inglese, e si trovava in Gaeta, quando Massena ne faceva l’assedio. Il generale Roche udendo questa circostanza, gli stese la mano, dicendogli “stringiamoci la mano, e di nemici che eravamo allora diventiam ora amici; io era tra gli assedianti Gaeta in quel tempo”.
Questa inaspettata riconciliazione strappò un sorriso di compiacenza a quei volti severi che ci guardavano. La statura di granatiere del generale, e i suoi modi franchi, piacevano a quella fiera soldatesca.

Il secondo che visitammo fu Giavella. Chiccio Giavella di Suli, è figlio di Foto Giavella, che fu il più prode e il più sincero patriota fra i Sulioti. Quando i Sulioti vollero trattare con Alì Bascià, Foto Giavella diede fuoco alla sua casa, amando meglio vederla in cenere, che profanata da qualche satellite di Alì. Suo figlio è un giovine di trent’anni, di statura media, con occhi vivi, arditi, di un coraggio impetuoso. Nel conflitto del giorno 19 poco mancò di essere tagliato a pezzi dalla cavalleria nemica per la sua temerità. Il suo vestiario, le sue armi erano rifulgenti d’oro e d’argento. Il pesgli(casacchino) era di velluto verde, orlato in rosso, ricamato in argento. Le armi e il vestiario di un capitano costano spesso più di dieci mila franchi. Il generale domandò anche a lui, se credeva necessario un corpo di truppe regolari in Grecia. Egli rispose che n’era più che mai convinto, soprattutto dopo la funesta esperienza dell’ultimo combattimento. Il generale lo avvertì, che aveva suggerito al ministro della guerra (Adams Ducas) di organizzare in Grecia una guardia nazionale, divisa in guardia sedentaria ed in guardia attiva, come si pratica in alcuni stati dell’Europa. Giavella rispose, che la considerava egli pure un’utile istituzione, e che la raccomanderebbe al ministro.

Vernet avrebbe fatto uno dei suoi quadri parlanti di Costantino Botzari, quando fummo a visitarlo nel suo bivacco. Egli era ritto in piedi sotto un gran pioppo; i suoi guerrieri gli facevano corona intorno, tutti ritti in piedi. Né oro né argento risplendeva sulla sua persona. Il suo vestiario era semplice e modesto, com’è il suo carattere. Sopra un pesgli di panno celeste aveva un cappotto bianco a lunghi peli di capra, l’ordinario cappotto de’ Sulioti. Avvezzi a distinguere il comandante di queste truppe dalla ricchezza degli abiti e delle armi, noi andavamo rintracciandolo cogli occhi, mentre gli eravamo già dinanzi. Un tappeto steso sull’erba per adagiarsi, era la sola distinzione, che lo potesse indicare. Un silenzio profondo regnava in quella turba d’immobili guerrieri. Botzari stava fumando pacatamente; ci accolse freddamente, ma amichevolmente. Egli è di Suli, fratello di Marco Botzari, il Leonida della rivoluzione greca. È tarchiato, robusto, e pur esso di statura media. Dicono ch’è somigliante al fratello. Egli è il nome più caro ai Sulioti fra tutti i nomi superstiti di quella marziale colonia. I suoi combattenti sono quasi tutti Sulioti, e fra questi un gran numero sono suoi parenti, che lo seguono in tutte le guerre, e più per amore che per privilegio, combattono sempre al suo fianco. Il generale Roche annunziò a Botzari, che il comitato francese aveva scelto il figlio di Marco Botzari, per essere educato in Francia. Botzari rispose ch’era grato al comitato, e che desiderava che suo nipote studiasse e si istruisse.

=Il Gen.= Conoscete voi la storia degli antichi greci e le loro gesta?
=Botz.= Non abbiamo letto la storia, ma l’abbiamo intesa.
=Gen.= La carriera che seguite, vi procaccerà onore presso i coetanei, e immortalità presso i posteri.
=Botz.= Lo scopo delle nostre azioni è solo il bene della patria.
=Gen.= La morte di vostro fratello, sarà sempre gloriosa pei greci.
=Botz.= I greci non desiderano che di fare una morte simile alla sua.
=Gen.= V’è fra i Sulioti alcuno, che porti il nome di qualche illustre antico?
A questa domanda un cugino di Botzari, che stava in piedi dietro lui, con voce risoluta rispose “il cuore, e non il nome fa l’eroe”.
=Gen.= Amereste voi di avere un re in Grecia?
=Botz.= Io credo che un re sarebbe conveniente al bene e alla situazione della Grecia.
Il generale aveva già fatto a bello studio questa interrogazione a molti altri capitani, ed eguale a quella di Botzari fu la risposta di tutti. Non so, a dir vero, se si possa confidare nella sincerità di queste risposte; perché mi sembrarono i capitani troppo accondiscendenti o per gentilezza, o per simulazione.
Costantino Botzari, come già dissi, è l’idolo de suoi compagni d’arme. Nell’ultimo fatto del 19 Aprile, lo salvarono a prezzo del loro sangue. Egli era stato smontato da cavallo da un uffiziale egiziano che era in procinto di farlo prigioniero. I suoi soldati, e i suoi parenti, vergognati di perdere il loro capitano, risolvono di salvarlo a tutto rischio. Gli fanno siepe intorno co’ loro corpi, combattono ritirandosi, lo spingono, lo portano per quasi un miglio di cammino. Quando il nemico incalza, fanno fronte, combattono, cadono e si rimpiazzano, e in questo modo lasciando diciasette del loro morti sul terreno, lo portarono in salvamento; e non solo riscattarono il suo cavallo, ma presero ai nemici che uccisero, dodici dei loro cavalli. In questo conflitto che ricorda i combattimenti dell’Iliade, sei fratelli parenti di Botzari perirono, per salvare a lui la vita, e ai Sulioti l’onore. Al prendere commiato, Costantino Botzari ci baciò sulla bocca. Questo è il bacio della più tenera amicizia che si usa in Grecia.

[…] Quando vidi Colocotroni, seduto in mezzo ai dieci altri suoi compagni prigionieri di stato, e attorniato con rispetto dalle guardie, mi ricordai del ritratto, che Tasso fa di Satanasso nel concilio de’ demoni. Incolti e canuti i capelli gli scendevano sull’ampie spalle, e si confondevano davanti coll’ispida barba, che dopo la prigionia si era lasciato crescere, in segno di lutto e di vendetta. Le sue forme sono rozze, robuste; i suoi occhi ripieni di fuoco; la sua persona marziale e selvaggia, somigliava a uno dei ruvidi e grigi scogli, che sono sparsi nell’arcipelago. Gli porsi i saluti della Bobolina, e gli annunziai che a giorni sarebbe stato libero. Mi fece ringraziare dall’interprete, e chiedere quali notizie v’erano. Io gli dissi, che gli Egiziani erano in procinto d’impadronirsi di Navarino, e che erano formidabili, non già pel loro valor personale, ma per la tattica e per la cavalleria ch’era nel loro esercito. Egli rispose, che per vincere gli Egiziani bastava solo raccogliere gente, e poi (accompagnando col gesto la parola) sparare i fucili. “Io conosco, soggiunse, le posizioni in cui la loro tattica e cavalleria sono inutili. Sapete chi ha dato la vittoria agli Egiziani? l’unità del comando; invece i Greci si sono perduti per la mania che ognuno ha di comandare senza sapere”. Mentre alzava la testa parlando, vidi sul suo braccio una cicatrice di sciabola; gli domandai dove aveva acquistato quell’onorevole decorazione? “Non è la sola decorazione questa, che porto sul mio corpo” – e così dicendo; mi mostrò un’altra cicatrice di fuoco nel braccio sinistro, un’altra nel lato destro del petto, e la quarta in una coscia. Parlando, egli faceva scorrere con rapidità i grani del rosario, e invece di quella posatezza turca che i Greci hanno contratto, egli volgeva gli occhi rapidamente e fieramente; si alzava, si sedeva, agitato, inquieto, come se fosse ancora Klefsta [sic], che temesse le insidie e le sorprese de’ nemici.

Il generale Colocotroni è certamente un uomo di una stampa non comune. Pochi giorni dopo venne posto in libertà, ed accolto in Napoli di Romania dal governo, col decoro ed i costumi richiesti dalla circostanza. All’atto della riconciliazione col governo, egli rispose all’improvviso al discorso, che un legislatore gli diresse. Nel suo rozzo discorso, è rimarchevole il passaggio in cui disse: “Venendo da ldra a qui, io gettai nel mare ogni rancore. Fate lo stesso anche voi, seppellite là dentro in quel buco tutti i vostri odj e le dissensioni; quello, sì, sarà il tesoro che guadagnerete”. Egli stava parlando nella piazza di Napoli, dove gli abitanti da più giorni scavavano la terra, nella lusinga (frequente in Grecia) di rinvenire un tesoro».

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