Pur essendo un simpatizzante della causa palestinese e pur nutrendo profondo rispetto per la religione maomettana (in specie per le sue posizioni sulle donne), trovo che l’atteggiamento degli immigrati in Italia e in Europa appartenenti a tale fede nei confronti del conflitto israelo-palestinese, manifestato con sparate continue su qualsiasi “palco” disponibile (dal baretto a Facebook fino alle trasmissioni di Rete4), sia a dir poco ridicolo: frasi come “quella è la terra degli arabi” o accuse agli ebrei di essere degli “occupanti”, espresse da gente che nella sostanza si sta comportando esattamente come i coloni israeliani verso la terra in cui è emigrata, sono quantomeno espressione di un’ingenuità imbarazzante.
Questa ingenuità peraltro si riflette, specialmente in ambito anglo-americano, anche tra quegli immigrati, sempre di estrazione islamica, che vorrebbero fare i saputi: per esempio, sui social circola da anni un’immagine provocatoria in cui si mostrano gli Stati Uniti, la Germania, l’Inghilterra e il Canada colonizzati da un’entità estranea (definita “Israele”), corredata dalla domanda “How would you feel?” (s’intende, naturalmente, se il vostro Paese venisse occupato da stranieri).
Come vi sentireste se la vostra nazione venisse conquistata da rifugiati?
È impossibile che anche il più tonto dei saraceni possa sostenere certe argomentazioni senza guardarsi allo specchio e dirsi: “Ma non è qui l’ebreo son proprio io?”. Alla fin fine è questo l’unico motivo rimasto per stare dalla parte dei palestinesi, nonostante il loro paraculismo e la loro inconcludenza: il fatto che, mutatis mutandis, noi occidentali stiamo vivendo un’esperienza molto simile alla loro.
Gli immigrati di fede islamica in Europa si comportano in maniera tutt’altro che differente dai primi coloni ebrei in Palestina: invece che dai kibbutz partono dalle no-go zone, espandendo i loro ghetti fino a occupare un intero territorio, come nelle periferie dell’intera Europa Occidentale e addirittura nel cuore stesso dell’Unione, in quella Molenbeek che è uno dei fortini del terrorismo jihadista.
Nonostante l’islam abbia un’impostazione universalista, è l’essenza stessa delle modalità con cui si sta presentando nelle nostre terre a connotarlo in modo etnico: quando mai, in effetti, aveste visto uno di questi immigrati provare a convincere gli autoctoni che la sua fede sia più vera delle altre? Nei confronti degli “aborigeni”, ormai non si sforzano più nemmeno di mettere in pratica la cosiddetta taqiyya (dissimulazione): insultano, aggrediscono, minacciano di prendersi tutto quel che abbiamo e di comandare un giorno sugli italiani e sugli europei.
Anche questo rende l’islamismo degli immigrati arabi affine al sionismo degli immigrati ebrei. Lo dimostra, del resto, l’impossibilità di formare un “fronte unico” per la Palestina nei vari Paesi in cui vivono: l’unico motivo per cui i governi occidentali stanno cambiando “sensibilità” nei confronti dello Stato ebraico è semplicemente dovuto al timore che gli allogeni mettano a ferro e fuoco piccole e grandi città.
Il significato politico del palestinismo delle “seconde generazioni” è ispirato a un identitarismo d’accatto, di stampo più psicologico che ideologico, un sentimento che in fondo è indistinguibile da quello che anima i maranza ogni qualvolta la nazionale di calcio del Marocco affronta una squadra europea. Non mancano poi dosi eccessive di vittimismo e megalomania, nonché complessi di inferiorità assortiti, ma questo è un altro discorso.
Gli slogan sul pericolo di “importare il conflitto” andrebbero perciò rivisti: non si tratta di presidiare sinagoghe, musei dell’olocausto o scuole ebraiche, ma di evitare di far la fine dei palestinesi. Non penso tuttavia ci sia un solo politico in Italia ad aver capito l’antifona: si proceda di conseguenza da destra a illudersi che Israele stia “combattendo la nostra guerra” e da sinistra ad aggregarsi ai caroselli magrebini come gli sfigati che a scuola prendevano le parti del bullo di turno per timore di prenderle.