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Gli insegnanti tengano la testa sulle spalle

In questi giorni, davanti ad alcune scuole di Torino, un “artista” ha deciso di esporre degli autoscatti erotici di alcune maestre corredati dall’hashtag in inglese pseudo-maccheronico #teachersdosex (perché è noto che “fare sesso” si traduca letteralmente “do sex”, sì; come è altrettanto noto che in Italia alcuni docenti possano insegnare una lingua straniera senza essere tenuti a conoscerla).

La “provocazione” giunge come risposta al caso di una educatrice costretta a licenziarsi per aver mandato foto osé al suo ex fidanzato (un calciatore dilettante), immagini che per magia (chi se lo sarebbe mai aspettato!) hanno iniziato a circolare tra colleghe e mamme degli alunni. Come scrive la filiale torinese del Corriere della Sera, che ne ha fatto una battaglia di civiltà:

«La maestra […] aveva raccontato nella denuncia di aver inviato foto e video al fidanzato, calciatore di una squadra dilettante. Quest’ultimo, violando il rapporto di fiducia, aveva poi inoltrato il materiale fotografico e video nella chat del calcetto (il giovane, accusato di diffamazione, ha già chiuso il conto con la giustizia, ottenendo la messa alla prova: un anno di lavoro nei servizi sociali).
[…] Le immagini hanno così cominciato a circolare tra gli amici e tra i genitori di un allievo della maestra. A quel punto la ragazza si sarebbe confidata con la direttrice scolastica […]. La dirigente avrebbe quindi invitato la giovane maestra a dimettersi, accusandola – come si legge negli atti – di essere “incompatibile con il lavoro di educatrice”. Aggiungendo che “se avesse dato spontaneamente le dimissioni”, lei “non avrebbe avvisato le altre strutture”. Viceversa, “avrebbe avuto un marchio per tutta la vita”. In un primo momento, la giovane era rimasta ferma sulle proprie posizioni. Ma poi ha ceduto, dopo essere stata invitata dalla direttrice a un incontro con le colleghe, dove sarebbe stata “sottoposta a una gogna pubblica” nella quale la dirigente l’avrebbe definita “svergognata”».

Questa vicenda contiene una tale quantità di paradossi e fallacie che si rischia di andare in overdose. Per esempio, non si capisce perché venga evocato per l’ennesima volta il patriarcato, nel momento in cui il “processo alla strega” è stato organizzato esclusivamente da donne (dirigenti, colleghe e madri degli alunni). Oppure, non ci si spiega (ma in realtà si capisce benissimo) per quale motivo sia stato adottato il criterio della “scopabilità” (vita snella, natiche sode e seni giunonici) nella scelta delle testimonial per la “campagna di denuncia”, come ad affermare implicitamente che sarebbe meglio che le insegnanti poco avvenenti e in sovrappeso no do sex (per usare il pidgin English dell’artista e delle sue comari).

Tralasciando però le “contraddizioni sistemiche” dell’establishment mediatico-politico femminista (come mi diceva sempre un insegnante, ora in pensione: “lasciamo battibeccare queste galline e andiamo a fumarci una sigaretta”), proviamo ad affrontare la questione dalla prospettiva dell’istruzione pubblica, che forse è la più interessante.

In primo luogo, l’ambiente scolastico italiano è generalmente piuttosto “puritano”, soprattutto perché orientato a sinistra nonché, almeno ai primi livelli, quasi interamente monopolizzato dalle donne (e quelle che interiorizzano il patriarcato diventano poi le sue più zelanti paladine, ma il discorso è complesso). Chiaramente tale forma di “puritanesimo” non esclude, anzi per certi versi impone, la reificazione della sessualità e tutto il contorno di “lezioncine” su fellatio e masturbazione sin dalla più tenera età; al contempo esclude però ogni dimensione prettamente erotica, libidica e ludica della sessualità: la “specialista” che viene ad esporre gli “oggetti sessuali” ai discenti non ha nulla a che fare con le famigerate commedie boccaccesche dei tardi anni ’70 con la Fenech e Pierino.

In aggiunta, almeno per quanto riguarda la scuola pubblica, c’è da sottolineare che nell’immaginario collettivo nazionale il corpo docente è assimilabile alla “classe agiata” di cui parlava Thorstein Veblen, obbligata alle “buone maniere” (tra le quali ovviamente la morigeratezza dei costumi) nella misura in cui esse rispecchiano l’impiego onorifico di un consumo non produttivo di tempo. S’intende dunque che la plebe può chiudere un occhio su assenteismo e incompetenza, ma non sulla garanzia della vita agiata a cui una condotta sessuale integerrima farebbe da sigillo. Commesse, postine e parrucchiere #dusecs, non le maestre: è una questione di distinzione castale e cerimoniale, non di bigottismo o maschilismo.

Veniamo però al tema più pruriginoso: l’islam. Su queste pagine abbiano spesso discusso della questione della laicità a scuola, esplosa oltralpe dopo la decapitazione di un insegnante alla periferia di Parigi “reo” di aver mostrato caricature di Maometto durante una lezione di educazione civica. L’immigrazione incontrollata degli ultimi due decenni ha favorito la nascita di “gruppi di pressione” nelle periferie delle principali città europee, composti perlopiù da imam di quartiere, manovali magrebini e “mamme informate” in versione islamica.

Nei licei francesi, per esempio, come racconta un preside che ha lavorato nei ghetti di Marsiglia, non si possono più tenere fantasmagoriche lezioni sulla Shoah con tanto di visioni spielberghiane e letture collettive del Diario di Anna Frank, poiché il “gruppo di pressione” locale assimila il tutto alla propaganda sionista e minaccia di far scoppiare il caos. Dalla Gran Bretagna invece giungono notizie di manifestazioni contro quelle lezioni di “educazione sessuale” appena evocate (laggiù caratterizzate peraltro dalle nuove tendenze dell’omosessualismo e transgenderismo): in diversi casi esse sono risultate “vincenti” fintanto che hanno potuto godere della frizione tra due dogmi che contraddistinguono la consorteria liberal che si è impossessata dell’istruzione pubblica, cioè libertinismo di massa (sempre pendant del puritanesimo di cui sopra) da una parte, e “islamicamente corretto” dall’altra (eredità del terzomondismo accolta in modo acritico in un contesto sociale totalmente mutato).

Ora, non vorrei che l’incoscienza e l’ingenuità della corporazione portassero ai “passi falsi” degli altri Paesi europei; poiché è chiaro che a un certo punto andranno fatte delle scelte per preservare un minimo di convivenza civile. L’illusione progressista che la scolarizzazione possa condurre all’integrazione è smentita dai fatti: e più si moltiplicheranno gli sforzi per far “trionfare i lumi sull’oscurantismo”, più nelle nuove generazioni si intensificheranno le tendenze identitarie e la passione per il radicalismo. Come sostiene la famigerata Hansen’s law, il “principio dell’interesse della terza generazione” (“Ciò che i figli vogliono dimenticare, i nipoti desiderano ricordare”) è inevitabile un ritorno del “rimosso”, delle “pratiche culturali ancestrali”, nei discendenti degli immigrati (e nel Vecchio Continente sembra quasi che i tempi di tale dinamica si siano accelerati con l’esplosione del terrorismo islamista su grande e piccola scala). Sempre più si rende dunque necessaria una qualche forma di “mediazione”, che potrebbe anche non contemplare la possibilità di “salvare capra e cavoli”.

In conclusione, l’evo attuale impone un sovrappiù di responsabilità da parte delle insegnanti: che esse prendano pure qualche settimana di malattia per giocare in anticipo sul prossimo dpcm e festeggiare il natale più lungo della storia d’Italia, ma evitino di inviare foto osé persino ai loro compagni (specialmente se appartengono a una casta inferiore: anche la scelta di un partner con status equivalente o superiore rientra nelle “buone maniere”). Insomma, come si diceva una volta, cerchino di “tenere la testa sulle spalle” (s’intende naturalmente in senso figurato).

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