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Il governo tecnico fa un deficit dell’11,8% e porta il debito pubblico al 160%

Vi ricordate quando in Italia si giocava con le virgole e gli zeri sul deficit? Era il 2018 e il governo gialloverde prima annunciava uno sforamento del 2,4%, poi del 2,04%. Quel taglio dello 0,36% del rapporto deficit-Pil fu una manovra tutta politica per dare un contentino alla Commissione Europea che già aveva iniziato la cantilena dello spread.

Quest’anno il governo Draghi farà l’11,8% di deficit: uno “scostamento” di 40 miliardi che in Italia non si vedeva dal 1991 e che segna un record di disavanzo dalla firma del Trattato di Maastricht.

Per quanto riguarda il debito pubblico, sempre nel 2018 il super-tecnico Carlo Cottarelli ammoniva che “senza la decisa stretta fiscale con la legge Fornero, la reintroduzione dell’Imu, l’aumento dell’Iva, dell’Ires e delle accise su benzina e alcolici, il rapporto fra debito e Pil sarebbe aumentato ancora più rapidamente e oggi sarebbe fra il 142 e il 145 per cento, con conseguenze drammatiche per l’Italia. Lo spread sarebbe molto più alto, il credito bancario più difficile, l’isolamento internazionale del Paese ancora peggiore, i rapporti con la Bce compromessi”.

Oggi Cottarelli, nel frattempo cooptato da Draghi come consulente per “la semplificazione burocratica e la riforma della Pubblica Amministrazione”, non ha nulla da ridire sul fatto che il debito pubblico schizzerà al 160%, superando così il picco del 159,5% del 1920 raggiunto per pagare i debiti di guerra.

Naturalmente sono polemiche inutili, però ci si domanda perché il superamento dell’isterismo sul debito pubblico si sia verificato solo nei confronti di una pandemia tutto sommato blanda rispetto a qualsiasi piaga del passato. Probabilmente piacciono solo le catastrofi che fanno rumore: non la disoccupazione, non la distruzione del welfare, non la guerra alla sanità pubblica, non i 700 neonati morti in Grecia che “avrebbero avvelenato il dibattito sull’Unione Europea”, non la morte di un Continente per una mentalità da bottegai falliti che adesso rinunciano al loro culto di carestia e austerità per qualche starnuto.

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