Афроукраїнці. Guida all’Ucraina “mulatta”

Premessa: Chi giunge su questa pagina cercando porcherie, sparisca dalla faccia della terra all’istante. Non per altro, ma la Russia ha appena bloccato due famosi siti pornografici (spero la notizia non sia una bufala), con la raccomandazione di trovare qualcuno nella vita reale che faccia le stesse cose (magari non tutte). In ogni caso condivido la decisione e spero, ripeto, che la pornografia sparisca dalla faccia della terra assieme ai suoi fruitori (ché mi sputtanate pure le chiavi di ricerca).

L’altro giorno sono andato a donare il sangue e per l’esame ordinario sono stato visitato da una dottoressa mulatta (tenente a mente questo particolare: “mulatta”). In realtà mi era già capitato di incontrarla precedentemente, ed essendo sempre rimasto un po’ indispettito dal tono sostenuto (anche questa volta: “Lei ha 160/90 di pressione, non potrebbe donare”; “Non può bere cinque caffè al giorno!”; “È in sovrappeso di XX chili”!), ho decido di ammansirla chiedendole da quale Paese venisse. Avevo sospettato infatti un’origine somala o tutt’al più brasiliana, tanto che mi era parsa addirittura una buona occasione per rinfrescare il mio portoghese o, nel peggiore dei casi, per praticare qualche lingua africana (da me sempre colpevolmente trascurate) come il somalo o l’amarico (in onore dei vecchi tempi, avete presente).

Bene, allora le chiedo informazioni sul suo ceppo etnico, e salta fuori che questa dottoressa è… UCRAINA?!? Come è possibile? (Spero abbiate tenuto a mente il “mulatta”). Non ho approfondito per educazione, ma mi è rimasta addosso una certa fregola di saperne di più.

Per il resto è stata una piacevolissima discussione: si è parlato un po’ in russo, sono saltate fuori cose interessanti. Seconda la prospettiva geolinguistica della dottoressa, gli ucraini vicini al confine polacco usano più parole polacche di quante dovrebbero: per esempio, anche se tutte le grammatiche e i dizionari indicano Дякую [Djakuju] come “grazie” (simile quindi al “Dziękuję” polacco), al contrario i “veri” ucraini dovrebbero dire Спасибо [Spasiba] o almeno  Спасибі [Spasibi].

A tal proposito, è quasi superfluo precisare che la dottoressa non ha cercato in alcun modo di nascondere la sua profonda passione per la Russia, anzi quando le ho detto, per pura piaggeria, che la letteratura ucraina è straordinaria (peraltro senza millantare nulla, essendo reduce dalla lettura di un fascistissimo articolo di Vasco Pratolini pubblicato sul “Primato” del 15 dicembre 1941, Narratori ucraini a cura di Luigi Salvini, nel quale lo scrittore denunciava «l’intimo dualismo che segna la patria ucraina, ancora una volta soggetta all’imposizione moscovita e al dichiarato nemico del comunismo»), e che la lingua ucraina è più musicale di quella russa, lei ha ribattuto a entrambe le affermazioni con argomenti più che convincenti: da una parte, Достоевский + Тургенев + Пушкин + Булгаков contro il povero Taras Shevchenko, e dall’altra la differente pronuncia della е (cirillica) che in russo suona je e in ucraino soltanto e (come in italiano), una particolarità che in effetti addolcisce la cadenza (come nel polacco).

Per concludere, la dottoressa mi ha ricordato che l’amicizia russo-ucraina continua a persistere e che la guerra è causata soltanto dalla “politica”. Non è la prima volta che sento utilizzare questa espressione da una persona dell’Est: per esempio, una signora polacca che aveva lavorato negli ospedali come cuoca, mi fece un discorso simile sulla “politica” che una volta in Polonia gestiva le mense dei nosocomi; l’espressione quindi dovrebbe comprendere politici, funzionari e “miliziani” (in accezione sovietica).

Sono contento di aver conosciuto un’ucraina non solo mulatta, ma persino filorussa: vivendo in una zona disagiata, gli ucraini che finora avevo incontrato erano degli energumeni capaci di picchiarti per aver detto una parola in russo. Non sono capace di disprezzarli perché anch’io appartengo alla white trash, ma mi fa piacere pensare che a Kiev esista una borghesia multietnica e filorussa.

*

La singolarità dell’argomento mi ha spinto a fare qualche ulteriore ricerca. In effetti non mi ero accorto ci fosse una pagina Wikipedia dedicata agli Афроукраїнці, che elenca appunto gli “afroukraintsi” più celebri (sfortunatamente solo un paio!): la cantante Haitana [Гайтана], che ha partecipato all’Eurovision 2012, nata nel 1979 a Kiev da madre ucraina e padre congolese, e il lottatore Žan Beleniuk [Жан Беленюк], argento nella lotta greco-romana alle ultime olimpiadi, nato a Kiev da madre ucraina e padre ruandese di etnia hutu (un pilota d’aerei che morirà nella guerra civile). Questo Beleniuk sembra si consideri un nazionalista (ha partecipato recentemente a una sfilata patriottica), ma secondo alcune indiscrezioni giornalistiche starebbe pensando di assumere la nazionalità russa a causa delle condizioni modeste che l’Ucraina offre riguardo alla disciplina da egli praticata.

A questi aggiungiamo il cantante e presentatore televisivo Miroslav Kuvaldin [Мирослав Кувалдін], di origine nigeriana (ancora da parte di padre), che nel 2004 ha dichiarato alla BBC di non esser mai stato vittima di razzismo, a parte aver ricevuto qualche volta l’epiteto di “culo nero” («But so what? That’s true after all»). Si tratta di un’espressione molto diffusa in Russia (черножопый [černožópyj]) per indicare i cittadini sovietici originari delle repubbliche dell’Asia centrale.

Infine, sempre su segnalazione di Wikipedia, il gruppo reggae Čornobryvtsi [Чорнобривці], composto da giamaicani, molto celebre in patria: tra i pezzi più noti (perlopiù rivisitazioni di brani tradizionali), “Несе Галя воду” (“Halja porta l’acqua”), “Ти ж Мене Підманула” (“Non prendermi in giro”) e Їхалі козаки (“Cavalcarono i cosacchi”).

Per il resto, Wikipedia ci ricorda che «Чисельність українців з африканським походженням відносно невелика. Вони зосереджені, в основному, у великих містах України» [“Il numero di ucraini di origine africana è piuttosto basso. Essi sono concentrati perlopiù nelle grandi città”].

L’articolo della BBC su Kuvaldin aggiunge qualche dettaglio sui motivi per cui un nigeriano si trovasse in Ucraina a metà degli anni ’70: «During the Cold War, the Soviet Union was anxious to promote its friendly “internationalist” image, and free higher education was offered to students from developing countries. Myroslav’s father was one of those who benefited and he met Myroslav’s mother when they studied medicine together».

Di questi scambi culturali tra Unione Sovietica e Terzo mondo ne scrisse, in tono decisamente poco idilliaco, anche il giornalista francese Gilbert Comte (Les étudiants noirs chez les communistes, “Le Spectacle du Monde”, aprile 1963):

«Nella sera di un agosto del 1962, un gruppo di ghanesi entra nel ristorante Chuchuliga di Sofia. Sentendo l’orchestra suonare, uno di loro invita una giovane bulgara a ballare. Prima che lei possa dire qualsiasi cosa, un soldato si avvicina al suo tavolo ed esclama: “Non avrai mica intenzione di andare con questo gorilla!”. Il rimprovero dà il via a una mischia generale: tutta la sala si precipita sugli stranieri per sbatterli fuori. I poliziotti assistono alla scena impassibili, intervenendo solo alla fine per condurre i neri in questura. Tra i sei ragazzi, quattro rimangono feriti: per questo vengono rilasciati dopo ventiquattr’ore. Gli altri due, Georges Annah e E. A. Attiga, trascinati davanti a un tribunale, sono condannati rispettivamente a uno e a tre mesi di reclusione per disturbo della quiete pubblica. Ci sono voluti sforzi non indifferenti da parte del governo d’Accra, compreso un intervento del presidente stesso, per ottenere la loro liberazione.
[…] A Mosca, nel 1960, durante una festa organizzata dalla facoltà di geografia, il somalo Abdulhamid Mohammed Hassan viene aggredito da quattro studenti sovietici per aver invitato una ragazza russa a ballare.
[…] Nei Paesi comunisti gli studenti stranieri sono sottoposti alle stesse restrizioni degli altri immigrati. […] Nell’università stessa, un sistema intricato di permessi limita il loro passaggio da un edificio all’altro. Gli studenti africani vengono confinato tra di loro e i contatti con gli studenti sovietici sono ridotti al minimo e soggetti a rigida sorveglianza».

Per completare il quadro con altre informazioni prese da internet, segnaliamo che alla parata per il Giorno dell’Indipendenza del 2014 erano presenti due afro-ucraini di origine nigeriana provenienti da Ivano-Frankivsk (Ucraina occidentale), studenti all’università locale “del petrolio e del gas” (evidentemente i programmi di studio ucraini sono all’insegna della concretezza), dei quali il giornalista che ne scrive (l’articolo è in lingua, ma la foto è eloquente) riporta con orgoglio che i due parlano ucraino ma non capiscono il russo.

Un altro studente nigeriano, Leonardo Obodoeke di Ternopil, ha partecipato all’edizione nazionale del talent show “The voice”, lo stesso programma in cui il cantante gospel Anjanja Udohvo (o “Udongwo”) si è esibito in una toccante versione di “Hallelujah”. Ma qui non si tratta di afroucraini, ma di africani tout court (come anche il gruppo amatoriale Блек старс [“Black Stars”], protagonista di numerosi festival folk).

(fonte: blackukrainian.tumblr.com)

Per quanto riguarda le fonti in inglese, blackukrainian.tumblr.com (ora disattivo) raccoglie sparute testimonianze di cultura nera in Ucraina, tra le quali segnalo un’intervista a due cugine di origine angolana, i cui padri arrivarono in Unione Sovietica sempre per la storia degli scambi culturali e si appaiarono con due sorelle ucraine. Le giovani denunciano un clima di razzismo che non si evince da altre testimonianze – dallo stesso sito, si registra  quella più positiva di una mulatta con padre del Burkina Faso e di Tina, figlia di uno studente del Ciad che (ovviamente!) partecipò ai programmi sovietici e poi restò in Ucraina.

Un’altra testimonianza non molto positiva è quella della regista russo-canadese Julia Ivanova, che nel documentario Family Portrait in Black and White (2011) narra la storia di “Mamma Olga” [Ольга Неня], affidataria di ventisette orfani dei quali sedici (!) di colore. Per l’ennesima volta, «Olga’s children are for the most part the beautifully unique result of relationships between African students – attending the affordable universities of the former Soviet country – and Ukrainian women» (chiedo scusa per la melassa, ma sto citando dall’Huffington Post).

Pur non avendo ancora visto il documentario (e avendo del resto poca voglia di farlo), non credo di poterne condividere lo spirito: con tutto il rispetto per la regista, non ha senso presentare vicende straordinarie come rappresentative della quotidianità.

Al contrario, mi sembra che di tutte le ex-repubbliche sovietiche l’Ucraina sia l’unica a registrare un fenomeno del genere: la costante di uno studente africano che mette incinta un’ucraina e poi torna al suo Paese (spesso non per volontà propria, ma per l’ovvia inflessibilità della burocrazia sovietica). Non mi pare esistano esempi di tal fatta in Polonia o in Bulgaria (ma chi può dirlo…).

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