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“Ha stato Erdogan”: sui danni della turcofobia come strumento di analisi della politica internazionale

Germano Dottori, docente di Studi Strategici all’Università LUISS-Carli e consigliere scientifico di Limes, ha ritwittato ieri un imbarazzante messaggio della giornalista Marta Ottaviani che ipotizzava che l’attentato nella cattedrale di Nizza (tre morti per mano di un immigrato tunisino) avesse reso “contento” il Presidente della Turchia.

Di fronte a qualche mia sommessa obiezione sull’assurdità della sparata, che già stonerebbe sulle labbra di qualche politico invasato -figuriamoci su quelle di una giornalista e ancor di più di un “esperto di geopolitica”-, Dottori non solo mi ha bloccato, ma addirittura ha insinuato che io sarei un “troll di Erdogan”.

Probabilmente l’esperto di politica internazionale ha maturato tale convinzione dopo aver preso sul serio una mia trollata, appunto, nei confronti di Laura Boldrini, l’ex-presidentessa della camera che ad onta di aver costruito una carriera sull’islamicamente corretto è improvvisamente saltata su a denunciare la “violenza islamista” .

Il lato più imbarazzante di questa vicenda tuttavia non risiede tanto nell’accusa farneticante, quanto nell’eventualità che, alla luce del suo “stile”, Dottori riuscirà a convincersi di esser finito in qualche “rete” e costruirà probabilmente una “analisi” anche su tale cantonata. Non penso valga la pena precisare che non sono un troll di Erdogan (che si scriverebbe Erdoğan, ma questa cosa la preciserebbe un suo troll!) e nonostante la malignità nemmeno mi sfiori, mi rattrista al contempo constatare che la stessa forma mentis che porta taluni a ipotizzare l’influenza degli “agenti-hacker-troll di Putin” su chi non dipinge il Presidente russo come uno zar sanguinario sia comunque diffusa anche tra commentatori seri (o presunti tali).

Perché è solo questione di “logica”, sia chiaro: se, come detto, ad approfittare di un attentato su terra francese compiuto da un immigrato tunisino per gettar fango su Ankara fosse stato un Salvini qualsiasi (come del resto ha fatto), la vicenda sarebbe stata decisamente meno controversa, dato che un politico può permettersi di essere spregiudicato e opportunista. Al contrario di chi dovrebbe possedere altri strumenti per interpretare la realtà: ma forse è chiedere troppo, specialmente in un Paese come l’Italia dove la destra non uscirà mai  dal ghetto sottoculturale in cui latita da sempre.

Se tuttavia si volesse proprio entrare nel merito, si dovrebbe in primo luogo far notare l’assoluta inconsistenza dell’affermazione della Ottaviani, che Germano Dottori tenta di ammantare di finezza analitica, riferendola a presunti “obiettivi di potenza nazionale della Turchia”, quando invece si tratta solo una boutade di bassissimo livello da parte di una giornalista che da anni attribuisce qualsiasi magagna universale all’odiatissimo leader turco: è ormai una sua crociata personale contro i mulini a vento di una nazione che, nella sua mente, sarebbe uno stato canaglia e fallito, un covo di fanatici, una minaccia per l’umanità (come nota Giuseppe Mancini).

Allora chiariamo subito un punto: Erdoğan, con tutto questo, non c’entra nulla. Non ha lanciato alcuna fatwa né chiamato alla guerra santa contro Macron. Semplicemente ha stigmatizzato i toni utilizzati dal Presidente francese dopo l’attentato contro Samuel Paty, il professore decapitato da un diciottenne ceceno per aver mostrato agli alunni le famigerate vignette di Charlie Hebdo durante una lezione di educazione civica. In particolare è stato l’accenno insistito al “separatismo islamico” che ha allertato tutto il mondo politico musulmano; per questo all’accusa collettiva Erdoğan ha risposto giocando la carta che sapeva più efficace nei confronti dell’Europa odierna, quella della Shoah:

«L’atteggiamento aggressivo di Macron, che spera di guidare l’Europa, è anche motivato dalla sua islamofobia e xenofobia. Macron non discrimina solo i musulmani nel suo paese e in Europa. Tale atteggiamento ha uno scopo politico. Macron segue il vecchio “manuale fascista”, attraverso il quale in Europa vennero presi di mira gli ebrei».

Nel messaggio ufficiale del portavoce di Erdoğan c’è anche un esplicito accenno alla jeopolitik:

«Allo scopo di creare un ambiente geopoliticamente favorevole alla Francia nel Mediterraneo, Macron cerca di presentare i musulmani come i “vicini meridionali” d’Europa. In realtà, i musulmani e la Turchia sono al centro del Mediterraneo e non se ne andranno da nessuna parte!»

Già questo dovrebbe far capire chi parla esplicitamente di politica (e dunque non ha bisogno di “troll”) e chi tenta di buttarla in caciara nascondendosi dietro parole come civiltà e libertà. In pratica secondo gli “esperti”, l’opinione pubblica dovrebbe dare per scontata la “buona fede” di Macron e contemporaneamente convincersi della natura machiavellica e criminosa di Erdoğan. Ma se ragioniamo in questi termini, allora è  lecito pensarla anche all’opposto, ovvero che Erdoğan sia sinceramente risentito per le accuse collettive di Macron contro i musulmani. Sulla polemica contro la nota rivista, sarebbe meglio sorvolare: il gioco  del Je Suis Charlie è sempre imbarazzante, dato che implica che l’obbligo a farsi “illuministi” sia sempre di qualcun altro. Quando per esempio la rivista pubblicò certe insopportabili vignette sui terremotati, la nostra reazione fu tutt’altro che “volterriana” (a meno che l’aggettivo non si riferisca al comune pisano): minacce di morte e processi ancora in corso. Non per questo è giusto dare ad intendere che dietro l’indignazione del sindaco di Amatrice si nascondesse, tanto per restare in tema, una rivendicazione dell’italianità di Nizza o della Gioconda.

Erdoğan dunque non sta “sobillando” alcunché e l’insistenza con cui la stampa ora lo pone a guida dell’islam politico è sospetta, oltre che ridicola: prima di essere islamico, il Gran Turco è… turco, dunque in tal caso evocare la sunna o l’umma è sintomo di una notevole ristrettezza di vedute. Ma lo scopo è chiaro: mettere sullo stesso piano Arabia Saudita e Turchia serve a instillare nell’opinione pubblica la convinzione che il terrorismo sia considerato da entrambi un’arma politica legittima, oltre naturalmente a far credere che Ankara sia la nuova Riyad e che in generale tutto il mondo turco sia ormai destinato all’inevitabile islamizzazione.

Ed ecco il tema più controverso, la fatidica “islamizzazione”: l’idea che essa abbia qualcosa a che fare con un tunisino che accoltella tre innocenti in una chiesa è incommentabile. È chiaro che poi uno finisce per sembrare un “troll di Erdoğan” di fronte a interlocutori che fanno a gara per spararle grosse. Eppure non sarebbe errato, in linea di principio, individuare una dimensione “islamizzante” nell’erdoganismo, a patto che essa possa essere identificata esclusivamente negli sforzi diplomatici e culturali messi in campo per conseguirla, e che non tiri in ballo cose che non c’entrano nulla, come la decadenza delle istituzioni occidentali e il fallimento di decenni di politiche d’integrazione. (Notiamo en passant che se il leader turco si permettesse anche un solo “passo falso” in tal senso, cioè se per esempio ponesse gli interessi confessionali al di sopra di quelli della “turcosfera”, il suo destino politico sarebbe segnato).

Non è questo però, per quanto problematico, il fulcro della questione, che a noi pare si possa riassumere in una frase: la Francia cerca un colpevole a cui attribuire il proprio suicidio. Il fatto che gli stessi che parlavano quotidianamente di islamofobia ora si mettano a denunciare il “terrorismo islamista” dovrebbe far suonare qualche campanello d’allarme su quanto sta accadendo. Per parafrasare un noto detto di Karl Kraus (“Ciò che non mi piace del nazionalismo non è è tanto l’avversione alle altre nazioni quanto l’amore per la propria”) ciò che è insopportabile nella turcofobia non è tanto l’odio verso Erdoğan, quanto l’amore verso Macron. “Con la Francia senza e senza ma”? Jamais! O, per meglio dire, non prima di aver considerato tutte le alternative sulla scacchiera senza lasciarsi ancora ammaliare dalle sirene dello “scontro di civiltà”.

Esiste un’area grigia che rifiuta di prendersi qualsiasi responsabilità di aver generato una guerra civile a bassa intensità in Europa e che ora si nasconde dietro Macron (da tempo agli sgoccioli in patria, ma ancora apprezzato da chi non deve essere governato da lui) alle prese col goffo tentativo di prendere due piccioni con una fava, cioè da una parte giustificare il rinnovato attivismo francese nel Mediterraneo (ma non è una crociata, sono idrocarburi) e dall’altra addossare la colpa della ghettizzazione delle provincie, delle scuole e dei vari “corpi intermedi” a qualche influenza esterna, quando purtroppo è il solito génocide franco-français.

Pochi giorni fa è stato dato alle stampe un impietoso atto d’accusa da parte di Jean-Pierre Obin: Comment on a laissé l’islamisme pénétrer l’école (settembre 2020). In veste di Ispettore generale dell’istruzione per quasi vent’anni, il professor Obin aveva già stilato un celebre rapporto nel 2004 (Rapport Obin), nel quale indicava, “in tempi non sospetti”, episodi sgradevoli generati dalla connivenza tra lassismo istituzionale, dittatura del politicamente corretto e immigrazione incontrollata, segnalando ad esempio istituti pubblici in cui era vietato parlare di Shoah, evoluzionismo o educazione sessuale per non offendere la sensibilità dei genitori musulmani. Nel giro di tre lustri le testimonianze si sono moltiplicate: la tragedia di Nizza, così come quella di Samuel Paty, covavano nel tessuto francese dall’epoca in cui Erdoğan era uno sconosciuto politicante levantino.

Dunque sia dato a Cesare quel che è di Cesare e al Sultano quel che è del Sultano. Non si continui a cadere in queste trappole col solito provincialismo dell’arrivato. Soprattutto a fronte di una “guerra santa-crociata-scontro di civiltà” nella quale non sappiamo nemmeno se i francesi ci considerino degni almeno di fargli da sparring partner. E se proprio è obbligatorio immaginarsi Erdoğan come “un politico machiavellico di grande abilità. Spregiudicato. Disponibile a tutto per un obiettivo di potenza nazionale. Persino degno di ammirazione, da un punto di vista realista” (così sempre il nostro Germano Dottori, al quale un giorno si dovrà spiegare che il Reis in politica estera è meno spavaldo di un Andreotti), allora a questo punto tanto varrebbe prendere esempio…

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