Questa dolce ragazza estone (non sono tutte così, ma quasi) ci ricorda due cose importanti:
1) nonostante l’Estonia sia una delle nazioni “meno religiose al mondo” (Wikipedia) alla maggior parte degli estoni piace andare alla Messa di mezzanotte (il “servizio divino” dei luterani);
2) l’estone è una delle poche lingue europee, assieme a quelle scandinave, a chiamare il Natale con il nome della festività corrispondente nel mondo pre-cristiano, Jõulud (Yule, Jul, Joulu, Jól, tutti dal proto-germanico jehwlą).
Molti amici estoni mi hanno confermato il fatto che le loro chiese la notte della vigilia siano sempre affollate. È un fenomeno che si ripete da quando il Paese ha conquistato l’indipendenza: prima il Natale era considerato un giorno come un altro (si lavorava, le scuole erano aperte) e i russi avevano ridotto tutte le manifestazioni di religiosità alla celebre versione sovietica di Santa Claus, Nonno Gelo.
Non è quindi da escludere un certo grado di “identitarismo” in tali celebrazioni, anche se spiegarle solo in tal senso sarebbe piuttosto meschino. In realtà se in quanto cattolico (o almeno cristiano) mi trovassi in Estonia il giorno di Natale, non mi sentirei per nulla spaesato tra alberelli addobbati, persone che si scambiano doni, e forse persino qualche presepe (o un surrogato con elfi e altri personaggi del folklore locale).
È banale osservare che la religione ha sempre una dimensione materiale (vorrei dire “mondana”, ma non è il caso di entrare in polemica proprio il giorno di Natale). Le due annotazioni della ragazza estone richiamano indirettamente gli etimi principali della parola stessa: relegere (una “riconsiderazione” della festa del solstizio d’estate nell’ottica del nuovo culto) e religare (praticare riti che tengano uniti gli uomini quel minimo che basta per rendere sopportabile la convivenza in una stessa società).
Ora che, sul nostro fronte, gli appelli a una “spiritualizzazione” del Natale contro la “deriva consumistica” stanno stravolgendo la festa (o il tempo della festa), credo sarebbe il caso di tornare infine alla dimensione materiale e, a questo punto, anche identitaria, del cristianesimo.
Qualche anno fa Pietro Citati scrisse per il “Corriere” un grottesco elogio delle chiese vuote, in cui magnificava la fede solitaria («Non c’è nulla di così intimamente cristiano») e vedeva nella diserzione dei fedeli un trionfo del “cristianesimo puro”: «In questi ultimi sessant’anni, il cristianesimo ha perduto i fedeli che veneravano il Cristo perché così volevano il potere e la società: dunque, mai o quasi mai per un impulso religioso. Ora, dopo tante perdite, sono rimasti i cristiani puri: quelli che siedono o pregano nelle chiese vuote, che leggono i Vangeli e le migliaia di libri, che la fede e la tradizione hanno ispirato durante quasi venti secoli».
Così una religione non può funzionare, chiunque è in grado di capirlo: non è dove «non soffia nemmeno un respiro umano» che Cristo può essere propriamente venerato. Il dualismo estremo tra spirito e materia, tra autenticità e ritualità, concepito in tali termini è una faccenda abbastanza recente, che nei confronti del Natale assomiglia quasi a una dissociazione: chi addobba un alberello o scarta i regali sta facendo qualcosa di contrario alla purezza, allo spirito, alla verità…
È un bene che, in questo panorama desolante, resista almeno la fede nel consumismo, anch’essa pericolosamente minata dal terrorismo (anche psicologico). I negozi pieni fino al limite, i mercatini che occupano interi viali, le tavole imbandite e stravolte dalle carte e dai nastrini dei nostri ridicoli e domestici potlatch: la fede resiste solo in questo; chi predica un qualcosa di superiore o ulteriore è fedele solo al nulla, e soltanto a esso vuole consegnarci.