Hamas psichiatrico. La fabbrica dei terroristi da Tavistock a Gaza

Continua la pubblicazione di articoli “storici” di Maurizio Blondet: dopo le giapponesine e la metafisica del cane, ora è il turno di un’importante disamina sul contributo israeliano alla creazione di Hamas. “Hamas Psichiatrico” è un capitolo del libro Chi comanda in America edito da EffeDiEffe nel 2002.

Devo tutte le rivelazioni che scriverò qui a Joseph Brewda, un giornalista americano ed ebreo, che mi onora della sua amicizia. Joseph è convinto che i terroristi suicidi, sia i palestinesi che si fanno saltare in Israele, sia (se ci sono mai stati) quelli sugli aerei dell’11 settembre, possano essere “fabbricati”.

Il racconto di Joseph prende le mosse dal Tavistock Institute di Londra: una strana clinica per malati mentali, un centro di ricerche psichiatriche di fama mondiale che – stranamente – è gestito da alti ufficiali delle forze armate britanniche.

Fondato nel 1920 sotto la direzione del generale di brigata e psichiatra dr. John Rawlings Rees, il Tavistock nacque per occuparsi dei soldati traumatizzati dalla Grande Guerra. Gli psichiatri e psicanalisti del generale scoprirono presto che questi individui erano acutamente suggestionabili; e che lo stesso effetto poteva essere ottenuto attraverso interrogatori brutali e torture. Essi misero a punto tecniche del controllo comportamentale, che furono praticate durante il secondo conflitto mondiale, come parte di vasti programmi di “guerra psicologica”.

Nel 1945, in un suo libro (The shaping of psychiatry by war), il generale John Rawlings Rees, un altro degli scienziati del Tavistock, propose che metodi analoghi a quelli sperimentati in guerra potevano attuare anche il controllo sociale in intere società o gruppi, in tempo di pace.

«Se proponiamo di uscire all’aperto», scriveva Rees, «e di affrontare i problemi sociali e nazionali dei nostri giorni, allora abbiamo bisogno di “truppe speciali” psichiatriche, e queste non possono essere le équipe psichiatriche stanziali nelle istituzioni. Dobbiamo avere gruppi di psichiatri selezionati e ben addestrati che si muovano sul territorio e prendano contatto con la situazione locale nella sua area particolare».

Dal 1947 il generale Rees fece carriera nell’apparato dell’Onu, dove creò la Federazione Mondiale della Salute Mentale; collaborò con sir Julian Huxley, allora capo dell’Unesco; e, secondo Brewda, entrambi elaborarono un progetto per la “selezione dei quadri” nelle colonie dell’impero britannico, da addestrare alla futura “indipendenza”.

In Africa e in Asia, però, sorsero movimenti di liberazione non controllabili da Londra. Gli specialisti del Tavistock perciò cominciarono da allora a creare movimenti “rivali”: il primo esperimento avvenne in Kenya. Nei campi di prigionia, taluni detenuti sarebbero selezionati e “preparati con metodi psicologici traumatici a formare frazioni della rivolta Mau Mau”. L’idea era di infiltrare il movimento di liberazione keniota con “gruppi rivali”, che li penetrassero e frazionassero, creando lotte intestine. I “rivali” dovevano usare metodi terroristici feroci, per screditare i movimenti.

A questo scopo, la Federazione Mondiale della Salute Mentale guidata da Rees lanciò nel 1949‑50 un ampio studio sui profili psicologici di vari Paesi. Il programma si chiamava Tensione mondiale: la psicopatologia delle relazioni internazionali. Furono studiate le reazioni, le suscettibilità psicologiche di diversi gruppi etnici, secondo Brewda “per poterli meglio controllare”.

In questo quadro, lo studio più approfondito fu intrapreso sugli ebrei: dapprima sui sopravvissuti alle persecuzioni naziste che erano riparati in Israele. Secondo la tattica suggerita da Rees, psichiatri “ben addestrati” furono mandati “sul territorio”. Nacque a Gerusalemme la Società per l’Igiene Mentale in Israele. La guidava il dottor Abraham Weinberg, un uomo del Tavistock.

Prevedibilmente, Weinberg diagnosticò, nella psicodinamica ebraica, la leva su cui poteva agire la psichiatria di guerra: la convinzione di essere il “popolo eletto”, diverso da ogni altro. Il fatto che nei secoli gli ebrei siano stati fatti sentire diversi dagli altri popoli, non ha fatto che rinforzare questo carattere, diceva il dottore. E ha creato una “personalità ebraica” intimorita e diffidente del prossimo. Di fronte alla persecuzione nazista, la popolazione ebraica ha reagito in maggioranza rinnovando la fedeltà alla propria identità etnica e alla “missione degli ebrei” nel mondo: la sofferenza subita era parte di questa “missione”, e la creazione dello stato d’Israele, il ritorno alla terra promessa dopo duemila anni, era il compenso per questa sofferenza.

Oggi (scriveva Welnberg nel 1948) per la prima volta in millenni, “è possibile creare una vera personalità ebraica, fondata sulla sofferenza del genocidio e sull’ambiente controllato di Israele“. Di fatto, secondo Brewda, questa diagnosi giustifica (e provoca) la riduzione dell’israeliano d’oggi a membro di un culto del sangue e del suolo; il fatto che Israele pratichi in “Terra Santa” una politica di segregazione e di igiene razziale nei confronti degli arabi, sarebbe la prova del successo del Tavistock.

Nello stesso tempo, il Tavistock conduceva lo stesso tipo di studi sugli arabi, attraverso un affiliato Istituto di Igiene Mentale con sede al Cai­ro; queste ricerche finirono per convergere con studi analoghi, che gli specialisti israeliani di guerra psicologica stavano conducendo per scopi militari. I risultati di queste indagini si ritrovano nell’opera monumentale di Raphael Patai (uno degli specialisti israeliani in profili psicologici) The Arab Mind.

Patai scopre nella “mentalità araba” il punto debole, che la rende vulnerabile alla manipolazione: la sua tendenza a confondere, specie sotto stress, “realtà e retorica”. L’arabo tipico “vuole apparire piuttosto eloquente che profondo, e la sobrietà è di rado un carattere apprezzato nei leader“. Lo dimostra, secondo lo studioso, il fatto che dei veri e propri pazzoidi (come il libico Gheddafi) possano godere di autentica popolarità.

È, come si vede, uno studio di profiling, ben noto ai servizi segreti più sofisticati: un gruppo etnico viene “profilato psicologicamente” dal nemico, per farlo agire – a sua insaputa – a vantaggio del nemico stesso. Quest’arte orribile non viene nemmeno nascosta. Sul numero del 22 giugno 2001 della rivista “International Bulletin of Political Psychology” è apparso un dotto articolo col seguente titolo: L’utilità della ricerca psicologica per accendere e sedare la violenza: gli “scopritori” di terroristi e la selezione e gestione di giovani terroristi.

Ne è autore il dottor Jerrold Post, fondatore del “Bulletin”, che per 21 anni è stato a capo, alla Cia, del centro “Analysis of Personality and Political Behavior”. In questa veste, Post ha scritto infiniti “profili psicologici” di capi di sette e di gruppi terroristi: ha studiato fra gli altri Bin Laden, Saddam Hussein e la psicologia dei dirottatori di aerei. Dall’11 settembre, viene spesso intervistato dai media americani.

E in Palestina? L’amico Joseph Brewda ci segnala la presenza, nella striscia di Gaza, dei “Gaza Community Mental Health Program” (GCMHP), che è di fatto l’unico presidio psichiatrico nella zona occupata dagli israeliani. Il centro è stato creato da un ramo del Tavistock in collaborazione con la Israel Psychoanalitic Association, ed è finanziato dai governi americano e britannico. Ufficialmente, ha lo scopo di «affrontare i problemi mentali dei bambini traumatizzati nell’Intifada (del 1987) e riabilitare i prigionieri politici palestinesi vittime di torture».

Difatti, «la tortura è una pratica corrente da parte dei militari israeliani», scrive Brewda: «Le leggi d’Israele consentono ufficialmente trattamenti come la deprivazione del sonno, prolungate sedute al buio, l’obbligo a mantenere a lungo forzate posizioni corporee, e confinamento (in spazi-scatola senza l’uso della toilette), esposizione a temperature estreme. Ci sono medici israeliani che esaminano i prigionieri palestinesi e indicano quali di queste torture possono essere applicate, dato lo stato di salute e le condizioni fisiche del detenuto».

Almeno centomila palestinesi di Gaza, il 10% della popolazione, è stato prima o poi detenuto nelle carceri israeliane e sottoposto all’una o all’altra tortura; molte di queste vittime sono bambini, dato che la legge israeliana considera adulto chi abbia più di 12 anni.

Secondo uno studio condotto dallo stesso “Gaza Mental Health Program”, l’85% dei 1300 bambini intervistati hanno assistito a irruzioni della polizia o dei soldati nelle loro case, il 42% è stato picchiato, il 55% ha visto picchiare il proprio padre. Il 19% di questi bambini sono stati essi stessi detenuti. Di conseguenza, molti di loro manifestano segni di deterioramento mentale: mutismo, insonnia, scoppi d’ira e di violenza immotivati verso i propri familiari.

Il “Gaza Community Mental Health Program” (GCMHP) fornisce a queste vittime un’assistenza, che si configura come “terapia di gruppo”. Una ventina di specialisti conducono queste terapie di gruppo “sul territorio”, fra i torturati da Israele insieme alle loro famiglie. Chi ha addestrato e preparato questi specialisti? Il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Tel Aviv, con l’approvazione formale del governo israeliano e con fondi degli Stati Uniti.

La stessa università di Tel Aviv addestra un gruppo di ricerca psicologica sul campo, il quale produce rapporti dai titoli significativi: Esperienza della tortura e stress post-traumatico tra prigionieri politici palestinesi, oppure Predizione del riassetto psichico tra i bambini palestinesi dopo la violenza politica. Insomma, la “ricerca” mette i “ricercatori” a diretto contatto con i futuri, potenziali quadri del terrorismo suicida.

L’intenzione è davvero quella di curarli? Se ne può dubitare: il direttore del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Tel Aviv, il dottor Ariel Merari, ha fondato e diretto, per l’esercito israeliano, l’Unità di Gestione di Crisi, il gruppo cioè che tratta con i rapitori, in caso di presa di ostaggi.

Il dottor Merari è uno psichiatra militare, esperto di profiling del nemico. Fra l’altro, è stato il primo israeliano, dopo l’11 settembre, a dichiarare che l’attacco su New York era stato diretto da Bin Laden. Secondo Brewda, tutta l’operazione di “salute mentale” ha lo scopo di selezionare e identificare, tra le vittime psicologicamente destabilizzate dalle torture d’Israele, quelli che possono diventare pericolosi terroristi.

Gli indizi che porta sono allarmanti. Anzitutto uno: il direttore dei GCMHP, pagato dagli americani e sotto controllo degli israeliani, è uno psichiatra palestinese, dottor Eyad al-Sarraj, che è anche un esponente di alto livello di Hamas. Inoltre, al-Sarraj non nasconde, anzi esalta, la sua ammirazione per i terroristi suicidi. Come ha scritto in un articolo del 4 agosto 1997, Capire il terrorismo palestinese: «In Palestina, la cosa stupefacente non è che accadano atti di terrorismo suicida, ma che accadano così raramente».

Il dottor al-Sarraj è convinto (come l’Istituto Tavi­stock di Londra) che la violenza è il solo mezzo con cui gli adolescenti disturbati della Palestina possano recuperare la salute mentale:

«È il processo che esteriorizza la coscienza di schiavo che è stata introiettata nel bambino [palestinese dalla violenza israeliana] e ne forma ormai l’intimità personale profonda. Con questi atti, i bambini riaffermano se stessi ed esercitano il diritto a una vita libera e migliore».

Ci si può chiedere come mai Israele, che controlla il centro di salute mentale di Gaza come abbiamo visto, e ne addestra gli specialisti, lasci al suo posto questo individuo. Forse la risposta, suggerisce Brewda, è nel fatto che al-Sarraj condanna apertamente Arafat e definisce i suoi tentativi di continuare il processo di pace come tradimento.

«Siamo diventati semplicemente gli schiavi del nemico. In nome della pace, siamo stati umiliati. Arrestati e persino torturati dalle forze dell’Autorità Palestinese per proteggere la pace. La nostra Autorità si è scatenata contro di noi per piacere a Netanyahu. I nostri governanti girano su grosse auto e si costruiscono grosse ville… ora capite perché siamo diventati assassini suicidi?».

Nel 1997, cose simili furono ripetute in una conferenza, tenuta all’inter­no del GCMHP, da Abd al-Aziz al-Rantissi, il portavoce di Hamas nella striscia di Gaza. In quell’occasione, Rantissi spiegò che «il suicidio è vietato dall’Islam, salvo specifiche situazioni».

Lo ascoltavano, e condividevano con lui il podio, la dottoressa Yolanda Gampel, direttrice della Israeli Psychoanalitic Association all’Università di Tel Aviv, il dottor Moshe Landsman, supervisore dell’assistenza psichiatrica al centro di Dimona (il centro dove l’esercito israeliano fabbrica le armi nucleari); inoltre, la dottoressa Helen Bambar e il dottor Rami Heilborn, che dirigono la fondazione medica per la cura delle vittime della tortura, fondata dall’Istitu­to Tavistock di Londra.

Per spiegare quale sia il lavoro di questi psichiatri militari fra coloro che il loro stato tortura, Joseph Brewda cita il dottor Jerrold Post, lo psichiatra americano del “Bulletin of Political Psychology”, a proposito dei talent scout di terroristi:

«Come i funzionari dei servizi di spionaggio valutano, nei potenziali candidati a diventare agenti dei servizi, i loro punti vulnerabili (condizioni economiche, status vocazionale e desideri, ferite narcisistiche, ideologia, comportamento sociale, orientamenti sessuali), allo stesso modo i talent scout di terroristi devono valutare i giovani potenziali terroristi in base ai loro fattori di rischio di violenza».

Tali fattori di rischio (Post ne elen­ca 24) non sono identificati per essere soppressi, bensì per essere use­fully mined, ossia “utilmente sfruttati”. Il dottor Merari compie, di norma, appunto questo “lavoro” per le forze armate israeliane.

Hamas è nata ufficialmente il 14 dicembre 1987, quando lo sceicco suo ispiratore, Ahmed Yassin, emise il primo comunicato a nome del gruppo terroristico-fondamentalista. Ci si può chiedere come Hamas abbia potuto sopravvivere nelle durissime condizioni dell’occupazione israeliana.

La risposta – straordinariamente franca – è in uno scritto della dottoressa Anat Kurz, del Jaffee Center dell’Università (ebraica) di Tel Aviv. In un Memorandum n. 48 pubblicato nel luglio 1997, la Kurz rivela che fu il governo Begin a fornire ad Hamas lo stato di associazione legale, già nel 1979,

«in coerenza con la politica israeliana di rafforzare i gruppi islamisti come contrappeso ai gruppi nazionalisti palestinesi [ … ] Israele ha sempre avuto un occhio di riguardo per l’Associazione Islamica [ossia Hamas]. Nel 1984, quando si scoprì che essa aveva costituito depositi segreti di armi, i suoi capi furono imprigionati, ma le autorità israeliane non hanno soppresso l’associazione. Evidentemente, i politici israeliani continuavano a considerarla un rivale di gruppi militanti e un elemento, utile dal punto di vista israeliano, di disgregazione tra i palestinesi».

Fino al 1993, ossia agli accordi di Oslo che avviarono il processo di pace, Hamas si è distinto solo per sporadiche aggressioni a militari israeliani. Solo dopo la firma degli accordi di Oslo il gruppo ha cominciato a usare terroristi suicidi, e questi contro la popolazione civile. Il terrorismo di questi attacchi atroci è noto: essi accadono sempre al momento giusto per costituire una scusa, agli elementi della politica israeliana contrari al processo di pace, che “trattare con gli arabi è inutile”.

Alcuni esempi. Il 6 aprile 1994, Hamas fece saltare un’auto carica di esplosivi in una stazione d’autobus: 8 morti e 44 feriti. Una settimana dopo, un terrorista suicida si fece saltare nella stazione dei bus di Hadera: 5 morti e 20 feriti. Ciò accadde mentre stava per riunirsi il tavolo di negoziato fra Israele e OLP per la firma degli accordi del Cairo: quelli che sancivano la nascita del proto-stato palestinese, e a cui il Likud (e Sharon) si opponevano ferocemente.

Nell’ottobre 1994, Hamas creò la prima spaccatura fra il governo Rabin e Arafat, sequestrando un ufficiale israeliano, Nashon Wachsmann, che tenne prigioniero (“deliberatamente”, sottolinea Brewda) nel territorio controllato dall’OLP: la cosa finì in un bagno di sangue (i rapitori furono uccisi con il rapito).

Per la prima volta il primo ministro Rabin fu bollato come “nuovo Chamberlain” dai falchi come Sharon e Netanyahu (gli stessi che dipinsero Arafat come “nuovo Hitler”). Una vera campagna d’odio, che non mancò di dare risultati: nell’ottobre 1995 Rabin, colpevole di aver avviato il processo di pace, fu trucidato da un estremista ebraico, “attentatore solitario”.

Il rapimento dell’ufficiale fu personalmente attuato dal capo delle “Operazioni Speciali” di Hamas, Salah Jadallah. Il punto cruciale è che Salah aveva ottenuto quella carica subito dopo essere stato dimesso da un manicomio israeliano. Secondo Hamas, Jadallah simulò la pazzia per evitare la prigione, dopo un suo arresto da parte degli israeliani.

In qualche modo, il suo biografo psicologico israeliano Andrian Kreye concorda. In un articolo del 1995 (Un posto in Paradiso: il culto dei martiri a Gaza), Kreye scrive che Salah «durante il processo recitò la sua pazzia in modo così convincente, che sua madre scoppiò in lacrime, pur sapendo che suo figlio recitava».

Continua Kreye:

«finito il processo, l’esercito lo internò in un manicomio. Qui [Jadallah] perfezionò la sua parte, girando nudo e urlando per i reparti, gettandosi in testa il cibo. Due anni rimase nel manicomio fingendosi folle. Appena rilasciato, Imad Aqel, il capo di Qassam [l’ala militare di Hamas] mise Salah Jadallah a capo dell’unità “Operazioni Speciali”. Da quel momento, questo giovane sottile è stato la mente di atti di durissima guerriglia e delle missioni più delicate».

Isaac Rabin fu ucciso da un giovane membro di un gruppo israeliano poco noto, chiamato Iyal. Arafat disse testualmente al giornale italiano “La Repubblica”:

«Siamo sicuri che Rabin è stato ucciso da un gruppo estremista israeliano, proprio come noi sappiamo che esiste un patto tra estremisti israeliani e palestinesi per impedire la pace. Avishai Raviv, il capo del gruppo estremista ebraico lyal, ha ammesso in un’intervista rilasciata il giorno precedente l’assassinio di Rabin, di essersi incontrato con estremisti del Jihad. E ha aggiunto che non era la prima volta».

Nel gennaio 1998, Arafat è tornato sul tema in un’intervista al giornale giordano “Al Ra’i”:

«Estremisti nei due schieramenti si fanno favori reciproci. Netanyahu [allora primo ministro israeliano, del Likud] è lieto che esistano gli estremisti palestinesi: gli consentono di uscire dal vicolo cieco in cui s’è cacciato, e lo isolano dalle pressioni internazionali».

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One thought on “Hamas psichiatrico. La fabbrica dei terroristi da Tavistock a Gaza

  1. Un libro che dovrebbe esistere, se solo fosse…

    Ho appena finito di leggere L’effetto della polvere di Jurgen Mattis ed è davvero un romanzo con i fiocchi e i controfiocchi. Chi volesse leggerlo è pregato di non proseguire perché sto per raccontarlo tutto. La storia è quella di un pazzo ricoverato in un manicomio criminale della Germania orientale, tale Hans Zimmerman, a metà degli anni Sessanta. Zimmerman è convinto di essere un alto ufficiale nazista e che ancora la guerra sia in corso. Ogni volta che parla con qualcuno – che sia un inserviente o un parente che è andato a trovarlo, per non parlare di un altro ricoverato – lui si impettisce e facendo sbattere i tacchi risponde esprimendo una fede incrollabile nella vittoria finale e chiudendo immancabilmente la sua tirata con un bel “Heil Hitler!”. Gli infermieri del manicomio sono costretti loro malgrado a procurargli ogni giorno una divisa nuova e stirata, altrimenti Zimmerman, spiega loro lo psichiatra, il dottor Hegenauer, rischia di togliersi la vita. Alcuni dettagli della storia sono meravigliosi. Per esempio quando Zimmerman sente fuori dalla sua camera lo scoppiettare del motore dei camion per le forniture alimentari dell’ospedale si riempie il cuore di nuova speranza perché è sicurissimo che si tratti di nuove truppe pronte a dar man forte alla Wehrmacht impegnata in una lotta di annientamento contro l’Armata Rossa. Nessuno, neppure Hegenauer, che è un comunista convinto e che al partito comunista deve tutta la sua carriera, se la sente di spiegargli che la guerra ha visto la fine e la rovina del nazionalsocialismo e che lui è solo un povero pazzo senza speranza. Si ha quindi una situazione in cui un vecchio rincitrullito viene salvato nelle sue follie naziste da un ospedale comunista nel pieno della Guerra fredda. Ma chi è veramente Zimmerman? Come è finito lì dentro? Nel corso di tutto il libro viene lasciato qualche indizio, relativo ad esempio alla sua esperienza militare e al suo odio atavico per gli ebrei. “Lei non è ebreo, signor Hegenauer, vero? In caso contrario non potrei parlare con Lei!”. Al di là della stranezza intrinseca di tutta la cosa, però, non ci si aspetta altro che un lento decadimento psichico e fisico del povero Zimmerman, che vive in un mondo tutto suo (tanto che nella sua stanza gli hanno persino concesso di tenere appesa una bandiera con la svastica) mentre il mondo fuori dalla sua mente se ne frega e va avanti senza i suoi deliri. Fin qui, onestamente, sarebbe solo una buona storia con una premessa straordinariamente affascinante. Ma si va molto oltre. E ora davvero chi non vuole sapere come va a finire è meglio che smetta di leggere. Zimmerman, in realtà, non è affatto pazzo. Hegenauer e gli altri, che sembravano solo i garanti di una misera normalità rassegnati a una vita grigia piena solo di seccature e delle follie di poveracci destinati a morire soli e dimenticati, sono in realtà delle spie sovietiche che lo hanno rinchiuso allo scopo di estorcergli informazioni utili a… vincere la guerra. Sì, perché non è affatto vero che ci troviamo a Berlino nel 1965 come non hanno fatto altro che dire ossessivamente al povero Zimmerman dall’inizio del romanzo. Per niente.. L’anno è il 1944 e Hans Zimmerman, comandante di divisione, è stato prima rapito e poi narcotizzato. Trattandosi di un uomo addestrato alla resistenza agli interrogatori Hegenauer e gli altri fanno di tutto per fargli credere di essere pazzo e fuori dalla realtà in modo che lui, attratto dalla ragionevole possibilità di rassegnarsi, possa finalmente dire tutto ciò che sa sugli spostamenti della Wehrmacht perché ormai sarebbero solo parte di un passato immutabile. Ma Zimmerman, nato e forgiato dal nazismo più intransigente, non ci casca e alla fine riesce a scappare minacciando di morte con una siringa avvelenata uno degli infermieri. Solo che quando esce la guerra è davvero finita e lui si uccide maledicendo la Germania che non ce l’ha fatta. Dal suo corpo esanime adesso il sangue sgorga fuori dalla tempia mentre lui si accascia sul rottame di un carro armato abbandonato in mezzo alle fiamme. Hegenauer sarà decorato come eroe del popolo ma nella scena finale, una volta solo nel suo pulitissimo ufficio, annoterà nel diario una frase inquietante: “Hans Zimmerman, un vero tedesco”.

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