Holocaust Day: sulla “Giornata della Memoria”

E siamo giunti così alla quindicesima “Giornata della Memoria”. Quella del 2016 è stata forse la più “compromessa” di tutte, poiché è venuta a cadere durante la visita del presidente iraniano a Roma, in contemporanea con le reazioni furibonde dei rappresentanti dell’ebraismo italiano. Prima di affrontare l’argomento da un punto di vista generale, sia consentito ricordare che nonostante un celebre rabbino italiano abbia definito la visita di Rouhani “intollerabile celebrazione dei negazionisti”, in realtà il più grande “negazionista di stato” ultimamente si è rivelato essere il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha sostenuto che fu il Muftì di Gerusalemme a convincere Hitler a sterminare gli ebrei invece di deportarli (una affermazione che in alcuni Paesi europei gli sarebbe costata un processo).

È inquietante che una tesi simile venga adombrata persino dal rabbino Giuseppe Laras in un intervento per il “Corriere” (La lotta all’antisemitismo come strategia della civiltà, 25 gennaio 2016):

«Può essere […] che alcuni fatti siano stati troppo sottostimati, come, per esempio, il rapporto, tutt’altro che occasionale e trascurabile, tra nazismo e Islam jihadista, quest’ultimo nutrito ed eccitato dalla Germania guglielmina prima e dal nazifascismo poi».

Se le parole hanno ancora un senso, questo è revisionismo (non che sia un crimine… anzi, lo è!). Bisognerebbe domandarsi perché sia in atto un tentativo di addossare la responsabilità della Shoah agli arabi. È probabile che ciò nasca dalla posizione paradossale assunta dagli ebrei d’Europa nei confronti dell’immigrazione: da un lato essi sono costretti a mandar giù il paragone tra profughi e vittime dell’olocausto, pena la scomunica del mondo progressista; dall’altro provano però una certa inquietudine nell’assistere all’occupazione dei loro quartieri da parte di giovani arabi sempre più agguerriti. Se per assurdo Netanyahu riuscisse a imporre la sua interpretazione se non agli storici almeno alle opinioni pubbliche occidentali, la destra israeliana e quella europea potrebbero saldarsi in un fronte unico anti-islamizzazione (al momento la liaison, nonostante gli sforzi di entrambe le parti, stenta a decollare).

Lasciando da parte gli scenari politici, veniamo alla “Giornata”. Il nome ufficiale della commemorazione stabilito dalle Nazioni Unite è Holocaust Remembrance Day, ma ogni Paese ha preferito nominarla e celebrarla a propria completa discrezione. Fa specie, tra le altre cose, che la data scelta dalle Nazioni Unite non coincida con quella di Israele (stabilita decenni prima) e che in molti Paesi la ricorrenza assuma specifiche caratteristiche nazionali: in Olanda è incorporata in una versione laica del 2 novembre, in Bulgaria è il “Giorno della Salvezza” e viene festeggiata in altra data (forse per marcare la differenza tra chi ha salvato i propri ebrei e chi no); negli Stati Uniti ce ne sono addirittura tre (una delle quali è stata creata su proposta di Steven Spielberg).

Non sono questioni secondarie, poiché non è chiaro se in tale liturgia laica gli ebrei debbano ancora svolgere qualche ruolo. È un dato di fatto che negli ultimi anni le critiche più pungenti siano partite da esponenti della cultura ebraica italiana (gli unici peraltro che possono permettersi toni così aggressivi nei confronti dell’evento).

Il dilemma che nasce dalla “Giornata” si può sintetizzare così: se su questa data si vogliono gettare le fondamenta di una nuova religione civile, allora la rimembranza deve estendersi a tutte le piccole e grandi tragedie dell’umanità e fare del proprio oggetto un qualcosa di talmente universale e generico da abbandonare ogni contestualizzazione storica. Una celebrazione del genere perderebbe tuttavia il suo scopo, che è quello di impedire il verificarsi di una nuova Shoah, dal momento che molti “celebranti” non trovano nessuna contraddizione nel credere che i palestinesi di oggi siano gli ebrei di ieri e che Israele sia colpevole di genocidio, così come altri non percepiscono la contraddizione tra le odierne attestazioni di antirazzismo e l’esodo di migliaia di ebrei dalla Francia che lo stesso antirazzismo ha prodotto (ogni ideologia si prenda le sue responsabilità).

Come soluzione di comodo, le opinioni pubbliche dei Paesi europei hanno innalzato agli altari solamente gli “ebrei morti” (l’espressione è di Elena Loewenthal, prendetevela con lei), impegnandosi nel fare di costoro le uniche vittime meritevoli di Memoria: gli eventuali accenni a zingari e omosessuali servono per cacciare ancora più indietro nella macabra graduatoria, fino a un occultamento che sa di censura, i dissidenti politici (ma in epoche meno bipartisan la politica era fondamentalmente l’unica chiave di lettura di un genocidio).

L’alternativa che i critici propongono è di santificare gli “ebrei vivi”, il che diventa incredibilmente complicato a meno di non voler trasformare la celebrazione in pura propaganda oppure in una festa religiosa e basta, allineandola quindi allo Yom HaShoah israeliano (che per gli “Ortodossi Moderni” rientra nel calendario sacro).

Restano dunque tutte le aporie del caso. Alla fine però non si tratta nemmeno di una questione politica o geopolitica, o economica eccetera. La confusione scaturisce dagli attriti tra Memoria e Storia, da tutti gli sforzi messi in atto affinché non trionfi l’oblio: da qui anche quell’aura di religiosità che in un’epoca come la nostra non può che risultare sospetta. La prossima immersione nel Lete si avvicina sempre più ed è impossibile far rientrare la Testimonianza nella Storia senza dar vita a una fede. Sulla breve distanza, è prevedibile che la “Memoria” resterà ancora per anni impigliata tra il culturale e il cultuale.

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