House of Hammer: il crollo di una dinastia giudeo-americana

Sono rimasto a dir poco sorpreso dal documentario in tre puntate House of Hammer, trasmesso da Discovery+ lo scorso settembre e dedicato alla figura dell’attore Armie Hammer e ai recenti scandali di natura sessuale che hanno distrutto la sua carriera. Le vicende ormai note sono state affrontate anche dalla stampa italiana: il celebre attore, classe 1986 e sulla cresta dell’onda da almeno una decina di anni, sarebbe stato coinvolto in diversi casi di abusi e violenza su donne rimorchiate attraverso Instagram. Una di esse, intervistata dagli autori del documentario, avrebbe raccontato di esser stata coinvolta in pratiche sadomaso senza consenso, un’altra invece di esser stata in una relazione tossica con Hammer per qualche tempo e di aver subito addirittura minacce esplicite di essere “divorata” (il tenore dei messaggi era: “Voglio morderti”, “Voglio mangiarti un pezzo di pelle”; “Voglio farti rimuovere due costole da un medico per cucinarmele sul barbecue”; “Sono al 100% un cannibale” eccetera).

La docuserie, pur impietosa nello smascherare le perversioni dell’attore, non si sofferma sulla sua ossessione per il cannibalismo preferendo incanalare tutto nella classica inchiesta post-#metoo, con tutte le ambiguità che contraddistinguono questo nuovo genere giornalistico (per esempio, perché una donna sottoposta ripetutamente da un uomo a pratiche bdsm senza aver espresso il proprio consenso decida comunque di continuare a frequentarlo, manifestando dunque una sorta di consenso “implicito”)?

Tuttavia, nonostante manchi un approfondimento serio sulla passione antropofagica di Hammer (che in ambito complottista ha suscitato varie illazioni, per esempio che ci sia proprio lui dietro a diverse sparizioni occorse durante il periodo del lockdown nei pressi della città di Joshua Tree, dove l’attore si trovava “ufficialmente” per ristrutturare un vecchio albergo), le sue malefatte, anche in assenza di eventuali risvolti penali, vengono denunciate senza sconti.

Quello che però davvero colpisce è che, nella prospettiva di stigmatizzare la figura del maschio bianco che credeva di farla sempre franca grazie alla fama e ai soldi (e non sfugga il fatto che gli autori mostrino spezzoni dei “Fabio Fazio” d’oltreoceano Jimmy Kimmel e Stephen Colbert, con quest’ultimo che addirittura inscena un siparietto con delle corde, come ad assecondare e sdoganare i feticismi dell’attore) il documentario risale alle origini della dinastia degli Hammer,  che fino alla debacle del suo ultimo rampollo era considerata il gotha dell’élite ebraico-americana.

Qui l’opera assume contorni che sinceramente non mi sarei mai aspettato da una produzione del genere: si parte dal capostipite Armand Hammer (1898–1990), figlio di Julius, ebreo di Odessa emigrato a New York nel 1875 e fondatore del Partito Comunista Americano, che viene apertamente accusato di aver finanziato i bolscevichi e di essere stato una spia del KGB. Addebiti che vengono poi riversati sul figlio, quell’Armand Hammer magnate dell’industria petrolifera che per decenni ha animato la secret society che governa il potere americano.

Si badi bene: questi sono sempre giudizi dei testimoni intervistati dai registi di House of Hammer, i quali accusano il patriarca degli Hammer, conosciuto come “il capitalista di Lenin”, di aver esercitato un “potere politico esagerato”, di aver “costruito un impero economico sul tradimento del padre” nei confronti degli Stati Uniti e di non essersi mai tirato indietro nel momento in cui c’era bisogno di riciclare denaro sporco o passare qualche informazione top secret ai bolscevichi (sempre a scopo di lucro).

Fa davvero specie che nell’America del 2022 si possa parlare liberamente di argomenti che prima dell’emersione dei “vizietti” di un attorucolo qualsiasi sarebbero stati ridotti a  “tropi antisemiti” [antisemitic tropes], come la questione della “doppia fedeltà” dell’élite ebraica a un indefinito “sistema” internazionale, i loro “stravizi” e l’impunità che ne segue, i legami che riescono a intrattenere col mondo politico attraverso ricatti e corruzione.

Oltre a tutto questo, emergono dei tratti specifici che caratterizzano questa particolare dinastia giudeo-americana: a rivelare retroscena abominevoli è  Casey Hammer, zia di Armie in quanto sorella di Michael Hammer, uno dei due figli di Julian Hammer, a sua volta figlio (unico) del capostipite Armand. Casey va in modalità “sputtanamento totale” e racconta di suo padre, Julian (nonno di Armie) cocainomane e pervertito, patrono di riti orgiastici mascherati da feste che infine accusa di averla stuprata (cercando persino di soffocarla, in onore della “passione” di famiglia).

La zia di Armie su alcuni punti non è molto prodiga di dettagli, poiché evidentemente sta affrontando ricordi dolorosi che mai avrebbe pensato di portare in pubblica piazza senza lo scandalo seguito alle bravate del nipote (tutto il “raccontabile” prima dell’implosione della galassia Hammer peraltro lo aveva già espresso in una biografia del 2015, Surviving My Birthright). Non di meno offre spaccati confermati da ex collaboratori di Armand Hammer come il giornalista Edward Epstein e il consulente per i rapporti con i politici Neil Lyndon (il qualo le definisce most satanic man), che riassumiamo brevemente in seguito.

Il fondatore dell’infausta dinastia, Armand Hammer, era un “maestro della guerra piscologica”, sposava donne facoltose per rimpinguare il suo già colossale patrimonio, e aveva ovviamente diverse amanti, alcune delle quali sottoponeva a “pratiche sessuali umilianti” (in anni in cui il sadomasochismo non era ancora mainstream). Secondo le persone che hanno lavorato con lui, era un individuo gretto e meschino: un esempio della sua insensibilità è rappresentato dall’atteggiamento tenuto nei confronti della catastrofe della piattaforma petrolifera del Mare del Nord Piper Alpha nel 1988, che causò la morte di 167 operai; dopo una “visita di cortesia” nel Regno Unito, sull’aereo di ritorno pasteggiò a champagne e caviale per averla passata liscia sia a livello penale che mediatico, forte della sua amicizia con l’allora Principe Carlo (le cui fondazioni aveva riempito di milioni di dollari).

Julian Hammer, nonno di Armie, era -come abbiamo ricordato- un pervertito incestuoso e perennemente ubriaco e drogato che nel 1955 addirittura si rese colpevole di un omicidio per debiti di gioco, crimine per il quale non scontò alcuna pena forte dell’influenza detenuta dal padre Armand, con cui peraltro collaborava nel registrare tentativi di corruzione tramite mazzette a scopo ricattatorio. Sua figlia Casey ricorda quando durante uno dei suoi festini pretese di sparare con un fucile a un elenco del telefono che era obbligata a tenere in mano.

Julian passò la “malattia” a suo figlio Michael (padre di Armie) che iniziò da giovanissimo a partecipare ai baccanali del genitore (al quale era stato affidato dopo il divorzio dalla moglie) e si ispirò a lui nell’erigere un “trono del sesso” per soddisfare le sue voglie segrete.

Armie Hammer, “principino” della dinastia, ha chiaramente avuto una carriera agevolata nel mondo dello spettacolo grazie al cognome che porta (dettaglio incessantemente negato prima della sua caduta) e ha ereditato tutte le ubbie della casata a cui appartiene. Non a caso la docuserie si chiude con delle considerazioni all’insegna della disillusione e del pessimismo, affermando che l’ultimo rappresentante degli Hammer riuscirà comunque a cavarsela e a “ripulire” la propria immagine prima del repentino ritorno sulle scene.

Il documentario è attualmente visualizzabile su YouTube in inglese. Non so per quanto tempo sarà disponibile, ma merita almeno un’occhiata.


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