I bianchi ritornano in Rhodesia (volevo dire Zimbabwe)

È risaputo che la sinistra è incapace di sfruttare i meme ai fini di propaganda politica (the left can’t memecome si dice nell’internet che conta): le spiegazioni che si danno al fenomeno sono infinite, tuttavia la più verosimile è che, per ribaltare l’apoftegma andreottiano, il potere logora chi ce l’ha, dunque l’auto-convincimento di trovarsi dalla parte giusta della storia per aver vinto qualche elezione ha reso tale fazione politica refrattaria a qualsiasi tipo di humour (anzi senza “o” perché è roba americana, lo humor quello “pericoloso offensivo e tagliente”).

Al contrario della sinistra, le miriadi di “destre alternative” sortite dall’anglosfera invece memano su tutto, concentrandosi in particolare sui tabù dei “medio-progressisti” che in tv e sui giornali vanno per la maggiore (sessismo, razzismo, omofobia, nazismo eccetera), tanto che in questa galassia noosferica ha infine trovato spazio, sempre per l’intento di shocking the bourgeoisie, la cara vecchia Rhodesia.

Sì, l’ex colonia britannica è diventata a tutti gli effetti un meme: su Youtube si rispolverano i rinnegati inni goliardici anni ’70 delle sparute forze di Sua Maestà assediate dai guerriglieri neri.

Ora, non vogliamo discutere di un argomento così spinoso, soprattutto perché la questione non è politica ma appunto memetica (anche se forse gli storici un giorno saranno costretti a riconoscere che “si stava meglio quando si stava peggio“), tuttavia è proprio gravitando nella memesfera che mi sono imbattuto in una notizia “sconvolgente”: i bianchi sono tornati in Zimbabwe!

In Italia ne ha parlato solo “La Stampa” (Zimbabwe, tra gli agricoltori bianchi ritornati nelle fattorie dopo 18 anni, 30 luglio 2018), con toni obiettivamente inediti per il mainstream:

«La narrativa dello scontro razziale cavalcata da Mugabe si sgretola nel vedere bambini e anziani azzuffarsi per abbracciare Robert e Darren. La famiglia Smart, da queste parti, è sinonimo di lavoro e istruzione, fino a una notte di due anni fa, […] [quando la tenuta passò] nelle mani di un prelato della Chiesa cristiana pentecostale, amico di Mugabe, e incapace di far fruttare le colture presenti. Una dinamica diffusa in tutto il Paese, costata 17 miliardi di dollari alle già dilapidate casse pubbliche e che ha portato al collasso del settore agricolo dello Zimbabwe, una volta considerato il “granaio d’Africa”.
[…] “Si respira un’aria nuova e dobbiamo ringraziare il presidente Mnangagwa che ci ha permesso di riappropriarci di almeno una parte della tenuta – afferma Darren Smart, proprietario della Lesbury Estate di Matare – ma adesso chiediamo al nuovo governo che si insedierà finanziamenti per ricostruire tutto quello che è stato distrutto”. Non è un caso che uno degli ultimi comizi elettorali dell’attuale presidente Mnangagwa sia stato proprio con un gruppo di proprietari terrieri bianchi, per provare a convincerli che quanto successo sotto Mugabe è irripetibile e che senza di loro il “granaio d’Africa” difficilmente riprenderà a dare frutti».

Pur respingendo la tentazione di vedere in ciò una conferma del motto del kekismo esoterico “He who controls the memes, controls the universe” (Colui che controlla i meme controlla l’universo), non possiamo non notare che qualcosa è veramente cambiato nel mondo dell’informazione: lasciando per un momento da parte i meme, dobbiamo forse cominciare a pensare che l’universale pregiudizio anti-bianco stia finalmente tramontando?

Per troppo tempo i giornali hanno sistematicamente insabbiato tutte le notizie sul “regno del terrore” (così lo definiscono oggi) di Robert Mugabe (addirittura accolto per anni a braccia aperte in Vaticano nonostante l’Unione Europea lo avesse dichiarato persona non grata dal 2002), allo scopo di mantenere in piedi la rigida dicotomia tra bianchi cattivi e neri buoni.

Vorrei ricordare solo a titolo d’esempio la surreale polemica che nel 2014 coinvolse il povero Jeremiah Heaton, un americano che “fondò” il Regno del Nord Sudan “occupando” una striscia di terra tra Egitto e Sudan non rivendicata da nessuno, per proclamarne la figlia Emily “principessa” nel giorno del suo compleanno. Dopo l’entusiasmo iniziale dei media, che la presentarono come una fiaba disneyana, giunse improvvisamente la gogna: nonostante il signor Heaton si fosse impegnato a fare del suo “regno” un hub della filantropia (come nella migliore tradizione colonialista britannica), la grande stampa infine si accorse del colore della sua pelle e proclamò che “i bianchi non sono autorizzati a fare queste cose nel [inserire anno corrente]”!

Non che il razzismo anti-bianchi stia scomparendo dai media, anzi per certi versi rincrudisce con il consolidamento della “generazione Trump” (chi vuole può farsi una “cavalcata” tra gli articoli di giornali segnalati polemicamente nei tweet qua sotto), tuttavia il fatto che di fronte a una notizia così importante la maggior parte degli opinionisti abbiano preferito tacere piuttosto che “dare di matto” rappresenta un dato da non sottovalutare.

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