In questi giorni si fa un gran parlare della NASA per la notizia dei due astronauti “abbandonati” nello spazio a causa di alcuni problemi legati alla navicella Starliner della Boeing e della necessità da parte dell’ente governativo di rivolgersi alla SpaceX di Elon Musk, che mobiliterà la sua capsula CrewDragon.
Lo smacco è incredibile ma, seppur riguardi genericamente una questione di appalti (e della decadenza della Boeing, che Trump in campagna elettorale ha accusato di gonfiare i prezzi senza offrire una qualità adeguata, forte del fatto di poter spillare qualsiasi cifra a Washington), essa è stata collegata all’ormai decennale colonizzazione ideologica dell’agenzia, la quale a partire dagli anni della presidenza Obama ha dovuto subordinare gli obiettivi per i quali è stata creata (ricerca, esplorazione ecc…) al raggiungimento di altri scopi, tra cui quelli rappresentati dall’acronimo DEI, cioè Diversity, Equity, Inclusion (Diversità, Equità/Uguaglianza, Inclusione).
Ci sono poi altri desiderata politicamente corretti che attualmente vengono inclusi sotto l’etichetta woke (come la necessità di produrre studi sul “cambiamento climatico”), ma concentriamoci sull’imposizione di una politica “inclusiva” rivolta principalmente ai cosiddetti BIPOC (altro acronimo da neolingua che indica i neri, gli indigeni e le “persone di colore”: Black, Indigenous and People of Color). Ricordo che, sempre che negli anni di Obama, come avevano denunciato alcuni dipendenti (anche di colore!), c’era stata una particolare pressione per facilitare le assunzioni alla NASA di professionisti di fede islamica, ma lasciamo la polemica al decennio passato.
Veniamo invece all’attualità: un’organizzazione di vigilanza dei media di orientamento conservatore, ha pubblicato uno spezzone sui tipi di “corsi di aggiornamento” a cui devono sottoporsi i lavoratori della National Aeronautics and Space Administration. Al di là delle “lezioncine”, la caratura delle slide a quanto pare è questa:
NASA’s DEI trainings include engineers vocalizing they “feel shame” for being white and for taking part in “white supremacy culture”. pic.twitter.com/xewypVKP1p
— TENET Media (@watchTENETnow) August 25, 2024
Le indicazioni di una white supremacy culture sono state prese di peso dalle teorie di una presunta “esperta” del tema, il cui unico merito è aver scritto una sorta di manifesto contro il suprematismo bianco nel 1999, tale Tema Okun, che è -sorpresa!- ebrea (ma quando c’è da denunciare la “bianchitudine” parla ovviamente come se fosse una White Anglo-Saxon Protestant) e, senza farla lunga, è la tipica semita che denuncia il sionismo sempre inserendolo nelle categorie del “suprematismo bianco” (dunque è accidentale che Israele sia uno Stato ebraico, ma lasciamo perdere).
Ecco, secondo la slide ispirata alla Okun, quali sarebbero le caratteristiche cultrali della white supremacy (ho cercato di parafrasare alcuni concetti in italiano per renderli meno schematici, posto che lo stile esprime esattamente il carattere dogmatico e coercitivo di essi):
- Perfectionism
- Defensiveness
- Worship of the Written Word
- Either/Or Thinking
- Objectivity
- Fear of Open Conflict
- Progress is Bigger, More
- Right to Comfort
- Sense of Urgency
- I’m the Only One
- Quantity over Quality
- Paternalism,
- Power Hoarding
- Individualism
- Only One “Right” Way
- Perfezionismo
- Stare sulla difensiva
- Adorazione della parola scritta
- Pensiero Aut Aut
- Obiettività
- Paura del conflitto aperto
- Progresso significa “fare di più” è più grande, di più
- Diritto alla comodità
- Senso di urgenza
- Sentirsi gli unici [in grado di fare le cose]
- Quantità rispetto alla qualità
- Paternalismo
- Accentramento di potere
- Individualismo
- Esiste solo un modo “giusto” [di fare le cose]
Dunque se un bambino “bianco” sogna ancora di “fare l’astronauta” allo stato attuale dovrà sottoporsi a un bel lavaggio del cervello. Non che in Italia la situazione sia migliore, considerando a quali “corsi di aggiornamento” (obbligatori) vengono sottoposti i professionisti in ambito sanitario a ogni livello: un’opera di “rieducazione” che seppur non riguarda apertamente la “pelle bianca” (si tratta di un’ossessione è una cosa soprattutto americana), alla fin fine esprime il medesimo messaggio dietro le maschere della “medicina di genere” o “inclusiva”.
Forse un giorno anche dalle nostre parti qualcuno avrà il coraggio di pubblicare qualche leak su taluni “ammaestramenti” perlopiù antiscientifici (considerando che tra le altre cose in essi viene negata la necessità di terapie differenti a seconda del gruppo razziale o, nel caso della famigerata medicina di genere, si mettono in secondo piano le differenze biologiche tra uomo e donna per discutere di patriarcato, sessismo, microagressioni ecc…).
Attenzione che la medicina di genere non c’entra una minchia con l’ideologia woke. Anzi la medicina di genere è una spina nel fianco ai woke, perché sostiene che le irriducibili differenze biologiche e biochimiche tra uomo e donna hanno notevoli conseguenze sul funzionamento e sull’efficacia dei trattamenti, anche un farmaco “asessuato” come un comune antinfiammatorio può comportare un metabolismo differente tra maschio e femmina. Le persone col pene femminile di considerino avvisate.
Hai ragione, ho specificato meglio aggiungendo una riga. Ho definito questi corsi “antiscientifici” e woke perché in essi il concetto di “medicina di genere” riguarda solo su cosa affermare sul posto di lavoro o su come non offendere i sentimenti di una donna, oppure su come superare la cultura patriarcale, non è che si parla di differenze biologiche, anzi.
Comunque corsi atti ad “insegnare” il politicamente corretto vengono già oggi proposti, anche qui in Italia, ai dipendendi di aziende da una certa dimensione in su. Per ora, appunto, la partecipazione è per lo più volontaria… per ora.
Io posso testimoniare dell’esistenza di corsi sull’educazione di genere per gli impiegati pubblici.