La “curdomania” occidentale sta raggiungendo livelli allarmanti: non solo per gli scalmanati che partono a combattere direttamente con l’YPG e le altre formazioni paramilitari o terroristiche (i quali andrebbero trattati come foreign fighters, perché chi va a cercarsi grane solo per aver letto un articolo su internet o aver visto passare qualche immagine in tv, è un pericolo per la società), ma pure per le prefiche del ceto medio semicolto, i filosionisti col pugnale fra i denti (Israele è il miglior alleato regionale dell’immaginario Kurdistan) e giù giù fino alle allegre comitive di squatter, antagonisti e scalzacani assortiti.
Per provare a demolire un po’ di mitologia resistenziale sorta attorno al “Kurdistan”, vorrei segnalare il sito della giornalista siriaca Sarah Abed che, seppur “di parte”, testimonia l’avversione che le altre minoranze mediorientali nutrono nei confronti dei pupilli di Israele e dell’Occidente.
La violazione dei diritti dei gruppi minoritari (siriaci, yazidi, armeni, arabi) nel Kurdistan iracheno è sistematica e prosegue ormai da decenni: non parliamo solo di pulizia etnica, ma anche di un “martirio culturale” al quale queste popolazioni sono state sottoposte. Così come nel 1915 i curdi parteciparono al genocidio armeno (e assiro) “ripulendo” quelle terre che ora rivendicano come proprie, allo stesso modo negli ultimi anni hanno cancellato le tracce delle culture più antiche (assira, armena e aramea), modificando la toponomastica non solo delle città (vedi Nohadra trasformata in Dahuk), ma anche dei siti di interesse storico. Secondo la Abed, è attraverso tale manipolazione che i curdi sono riusciti a creare dal nulla una tradizione millenaria sulla quale basare le proprie pretese di egemonia e indipendenza.
Come afferma un altro giornalista di origine siriaca esule in Svezia, Augin Kurt Haninke,
«nonostante l’oppressione che hanno subito da parte dei turchi, i curdi non hanno mai imparato a essere tolleranti. Il loro scopo nel Nord dell’Iraq è quello di assimilare o espellere le popolazioni indigene assire che vivono lì da sette millenni».
Ci sono alcuni atti particolarmente odiosi di cui le milizie curde si sono macchiate durante la guerra civile siriana. Per esempio, il brutale assassinio, avvenuto nell’aprile di due anni fa, del generale assiro David Jindo, attirato dall’YPG in una trappola con la scusa di una cooperazione per essere torturato e giustiziato.
Le informazioni riguardo a tali vicende sono rarefatte e sporadiche, poiché ovviamente la loro diffusione rovinerebbe l’immagine dei “guerriglieri a fumetti”; tuttavia grazie al lavoro della diaspora in contatto con le varie armate rimaste fedeli al regime siriano, il generale Jindo è già entrato a far parte dell’epica siriaca, accanto a nomi che conosciamo poco, come quello del patriarca nestoriano Mar Shimun XXI Benyamin (1887-1918), ucciso anch’egli a tradimento dal capo tribale curdo Simko Shikak (uno dei più feroci sterminatori di cristiani persiani).
In generale i curdi sono intolleranti verso tutte le altre minoranze perché si sentono perennemente accerchiati (al pari di Israele, che infatti in Medio Oriente non ha amici): il vandalismo anticristiano, incoraggiato dai loro imam, è sfociato nei tumulti del dicembre 2011, quando vennero distrutti negozi di liquori, alberghi, ristoranti appartenenti ai siriaci e yazidi di Dahuk.
Un esempio recente di tale “politica” verso queste due etnie è l’imposizione del disarmo completo delle loro milizie con l’assicurazione che i Peshmerga si sarebbero occupati della loro difesa: il risultato, prevedibile, è che gli assiri sono stati lasciati completamente in balia dell’Isis.
Un altro particolare che emerge dagli articoli della Abed è la corruzione endemica su cui si fonda la gestione del potere del Kurdistan iracheno: basti pensare che, nonostante il controllo totale sul proprio petrolio e i cospicui aiuti internazionali ricevuti negli ultimi anni, il Governo Regionale è riuscito a realizzare un buco di 25 miliardi di dollari. È anche per questo che il recente referendum per l’indipendenza, seppur dal risultato plebiscitario a favore del “Sì”, si sia trasformato in un boomerang per Barzani e i suoi accoliti, contribuendo ad accelerare la catastrofe economica.
Le reazioni sono state dure sia da parte iraniana che, ovviamente irachena: ma il più gagliardo di tutti si è dimostrato, come al solito, il Gran Turco, sua eccellenza Recep Tayyip Erdoğan. Col suo stile confondibile, egli ha infatti voluto rivolgere questo messaggio ai fratelli curdi:
«Nonostante la nostra opposizione, il Governo Regionale del Kurdistan ha voluto fare a tutti i costi il referendum… A parte Israele, nessun altro Paese ha condiviso questa decisione. Il fatto che un singolo gruppo pretenda di imporre la propria egemonia su un’area come quella dell’Iraq del Nord, così variegata dal punto di vista religioso ed etnico, sarà occasione per nuovi conflitti e sofferenze… Chi accetterà la vostra indipendenza? Il mondo non è solo Israele. Il Kosovo è stato riconosciuto da 114 Paesi, ma è ancora in grave difficoltà. Caro Iraq del Nord, cosa potrai mai combinare assieme a Israele? Ora che cominceremo a imporre le nostre sanzioni, vi troverete in grossi guai. Ci basterà chiudere le valvole e sarà tutto finito, tutti i vostri guadagni spariranno immediatamente. Quando i nostri camion smetteranno di andare nel Nord Iraq, morirete di fame… Non distruggete il vostro domani per l’avidità del momento. Sventolare le bandiere israeliane non vi salverà…»
E dunque, malgrado le simpatie internazionali e l’incessante propaganda, anche i curdi avranno pane per i loro denti (anzi, non ne avranno affatto).