Non comprendo l’isterismo riguardo la questione “dazi”: nutro totale disprezzo per i peracottari che si fregiano di qualche conoscenza in materia economica (ovviamente sempre occultando non dico i propri titoli di studio, che saranno equiparabili al battesimo, ma anche solo le proprie fonti), e provo qualche perplessità anche per chi si spaccia come “vittima diretta” delle misure di Donald Trump nel momento in cui il nostro Paese non possiede alcun “colosso” che possa crollare nell’eventuale guerra commerciale tra Washington e Pechino (Bruxelles esiste meno geopoliticamente che finanziariamente, e ho detto tutto).
Per il resto, io ammetto di non capire nulla di economica, ma al contempo avendo fatto le elementari mi sento in diritto di commentare talune notizie, specialmente nel momento in la “scienza triste” irrompe nel campo del politico, che è poi quello della vita (essendo l’uomo zoon politikon). Da tale prospettiva, un dato che mi pare si possa accettare pacificamente (a meno che non viviate in qualche podcast del tipo “Ora è il momento di comprare, o vendere”) è che la globalizzazione è finita.
Davos non è più Eleusi e OVVIAMENTE la Cina non ha alcuna intenzione di assumere il ruolo di “compratore di ultima istanza” visto che una scelta del genere non avrebbe alcun senso da qualsiasi punto di vista se non di quello di una -filia che Pechino non può nemmeno permettersi nei confronti dei miswak prodotti in Xinjiang o delle “mogli in vendita” allevate nelle circostanti nazioni.
Bisogna dunque tornare a discutere in modo “laico” di dazi, lasciando da parte gli anatemi che attualmente partono dalle varie parrocchiette italiane (ed europoidi). È infatti necessario che, da destra o da sinistra, qualcuno trovi il coraggio di restituire al concetto di “dazio” la dignità che merita, superando quella superstizione che attualmente ci obbliga a considerarli un sinonimo di autarchia, quando invece essi non sono che uno degli strumenti ai quali i governanti possono legittimamente ricorrere nei casi in cui ne giudichino opportuna l’applicazione.
La stessa Coldiretti, per parlare di Strapaese, è ormai da decenni che invoca l’imposizione di dazi nei confronti delle importazioni di riso da Paesi extra-europei, come se a Bruxelles importasse davvero qualcosa della bizantina pratica della “etichettatura d’origine”, così come se qualsiasi ristoratore olandese o svedese (persino di origine italica) avesse qualche remora nell’utilizzare riso basmati indiano o pakistano rispetto a quello di Piazzuola delle Raganelle che costa dieci volte in più ma ha tutti i “bollini” al posto giusto.
La questione andrebbe poi estesa a un altro punto dolente, quello delle delocalizzazioni. In Italia ormai assistiamo a un effetto valanga, tanto che diventa superfluo accennare al caso del giorno, in quanto perfetta riproduzione di quello precedente (e di quell’altro ancora…). Ma è possibile che nessuno si domandi perché il nucleo della produzione automobilistica europea sia tutto abbarbicato in Slovacchia? Non esiste alcuno strumento liberal(e) per impedire che una multinazionale scelga di restare nel Paese in cui l’azienda appena rilevata è nata, se deve pagare il triplo o il quadruplo (ma anche solo l’1% in più!) di stipendi.
L’idea che l’apparato burocratico europeo sia orientato alla “difesa del lavoro” e che dunque una presunta “solidarietà” possa ispirare alla Commissione di turno qualche provvidenziale cavillo per impedire ilgioco a ribasso delle trasmigrazioni industriali è risibile, e addirittura rischia di far sorgere conflitti inediti tra nazioni (perché se fino a poco fa si faceva finta di puntare il dito contro le “multinazionali cattive”, adesso si passa direttamente alla colpevolizzazione degli altri membri dell’Ue, con i quali in teoria si dovrebbe collaborare in armonia), come è successo quando Emmanuel Macron aveva lanciato una delle sue ridicole crociate contro la Polonia sul cosiddetto “dumping sociale” (peraltro -parliamo del 2017- era evidente si trattasse di un pretesto per far sentire Varsavia accerchiata da Parigi sul lavoro, da Bruxelles sulla giustizia, da Berlino sull’economia e da Roma sugli immigrati).
Proprio in contrasto con quest’ultima tendenza “europeista”, per non mancare di rispetto a nessuno utilizzeremo come esempio di Paese “beneficiato” dall’offshoring la nazione immaginaria di Dampinghia, la cui valuta indicheremo in “bottoni”. Dopo queste precisazioni, veniamo al punto: se un lavoratore italiano guadagna, mettiamo, 1200 bottoni al mese, come si può impedire alla multinazionale di delocalizzare in Dampinghia dove lo stipendio medio è di 300 bottoni?
Le soluzioni de destra e de sinistra sono sintetizzabili in due parole: il politico liberale/liberista (o come volete) dice che l’Italia dovrebbe “sprecare” meno soldi in sanità, pensioni e istruzione per offrire qualche vitello d’oro alle multinazionali che ci fanno l’onore di restare nel nostro Paese. Una posizione assolutamente legittima, sia chiaro, ma ci si domanda come nella testa del liberista “compassionevole” sia possibile colmare il gap tra 1200 e 300 bottoni semplicemente “abbassando il costo del lavoro”: si vorrebbe forse obbligare lo Stato a sparire da tutti i settori per poi statalizzare indirettamente solo quello industriale?
Passando alla posizione de sinistra, è anch’essa riassumibile in un paio di righe: la soluzione per costoro sarebbe quella di favorire il sindacalismo tra gli operai della Dampinghia in modo che laggiù gli stipendi passino da 300 a 1201 bottoni e la voglia di trasloco delle multinazionali ne risulti così frustrata.
Una delle difficoltà che comporta tale ideuzza è che, come limiti di tempo, il sindacalista (pure lui “compassionevole”) si pone un lasso che va dal secolo al millennio, il che già dice molto sulla concretezza della proposta; ma c’è un aspetto ancora più ridicolo, ed è quello di non rendersi conto che, in un mondo globalizzato, a una multinazionale converrà sempre delocalizzare.
Sì, è un concetto talmente semplice che è quasi imbarazzante formularlo: se una corporation ha la possibilità di spostarsi dall’Italia alla Dampinghia anche solo per risparmiare un bottone a operaio… beh, cosa dovrebbe impedirle di farlo? I piagnistei di qualche ministrucolo o dei riciclati di turno lasciano il tempo che trovano, a meno che a qualcuno di loro non sovvenga precisamente la parola magica: dazio…
D’altronde se esistesse un modo più efficace e immediato per frenare la deindustrializzazione, che non quello di imporre tariffe a chi vuole reimportare i prodotti (ché mica può venderli ai dampinghesi coi loro stipendi da fame!), gli americani lo avrebbero già utilizzato: purtroppo il mond(ialism)o vuole così, e più la globalizzazione “morde”, più s’impongono alternative nette, senza ulteriore possibilità di fraintendimento.
Chi crede alle favole, dovrà comunque prepararsi all’eventualità di perdere il proprio posto di lavoro da un giorno all’altro, perché l’abbattimento del costo del lavoro in Italia e le lotte sindacali a Dampinghia non serviranno comunque a colmare la differenza di un bottone tra uno stipendio e l’altro (è solo una metafora, ma forse utile a far capire che nel mondo globalizzato la vita dei popoli vale meno di un bottone).
Perciò è anche inutile ipotizzare che “Trump tornerà indietro” perché è stupido, vecchio o arruffone: in un modo o nell’altro, la soluzione dei dazi verrà riproposta in altre forme più accettabili solo per pressioni proveniente da altri contesti che non siano quello economico (rapporti con l’Asia, nuove Jalte o chessò).