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I dissidenti cinesi sostengono ancora Trump contro il politicamente corretto

Why Do Chinese Liberals Embrace American Conservatives?
(Ian Johnson, New York Times, 18 novembre 2020)

Alcuni importanti dissidenti cinesi hanno dimostrato una sorprendente ambiguità, sostenendo da una parte la democrazia e la libertà di parola in patria, e dall’altra auspicando la rielezione di Trump. Ora che Joe Biden sembra aver vinto, il paradosso potrebbe interessare solo per gli storici del pensiero cinese: tuttavia, questi intellettuali liberal rappresentano ancora una cartina di tornasole sullo stato della politica estera statunitense, nonché un monito sulle sfide che la società americana dovrà affrontare.

Molti intellettuali liberal cinesi hanno tratto motivi di estremo entusiasmo per il modo in cui Trump ha rotto gli schemi del tradizionale approccio diplomatico nei confronti di Pechino, in particolare superando la convinzione che gli scambi commerciali sarebbero serviti ad ammorbidire la politica autoritaria cinese e accantonando la consuetudine di affrontare le controversie a porte chiuse piuttosto che prenderle di petto. In un certo senso la loro posizione segue il classico motto “il nemico del mio nemico è mio amico”: per alcuni progressisti cinesi, la stridente opposizione di Trump al Partito comunista Cinese lo rende automaticamente un alleato.

Ora questi pensatori e attivisti temono uno come Biden, protagonista per decenni del “vecchio corso” in politica estera: in qualità di vicepresidente, per esempio, il democratico ha incontrato Xi Jinping in numerose occasioni nella speranza di convincerlo che ciò che egli definisce “empatia strategica” potesse in qualche modo frenare l’espansionismo cinese in Asia.

Un dissidente come il magnate dei media Jimmy Lai crede che un ritorno del Washington Consensus sarebbe un passo falso: fervente propagandista per i movimenti democratici di Hong Kong, J. Lai è anche un convinto sostenitore di Trump: “Biden proverà a raggiungere qualche compromesso, adottando le stesse politiche che in passato non hanno funzionato”, ha detto al NY Times. “Trump invece ha fatto sul serio”. Il tycoon ricorda che Trump ha aumentato le esportazione di armi a Taiwan, mossa che ha contribuito a scoraggiare eventuali sortite cinesi. Le passate amministrazioni degli Stati Uniti hanno agito in punta di piedi per timore di far arrabbiare Pechino, causando un indebolimento delle capacità militari dell’isola costantemente minacciata nella sua sovranità.

Eppure anche queste questioni diplomatiche sono secondarie rispetto a ciò che interessa veramente a molti liberal cinesi: le guerre culturali americane, in cui alcuni vedono un riflesso dei dibattiti sui limiti della libertà di parola in Cina. Data la veemenza della discussione pubblica negli Stati Uniti, il confronto potrebbe sembrare eccessivo, ma esso esprime il desiderio da parte di molti pensatori cinesi che le democrazie liberali occidentali rimangano tali.

La questione della correttezza politica, in particolare, li angustia, poiché molti vedono in essa una sgradevole rievocazione delle proprie esperienze in una società in cui la libertà d’espressione è fortemente limitata. Percepiscono Trump come l’incarnazione di un approccio senza filtri e dogmi a cui anelano, mentre vedono il liberalismo americano ormai definitivamente allontanatosi dai suoi valori fondanti.

Sun Liping, uno dei principali sociologi cinesi, ha sostenuto in un saggio pubblicato lo scorso anno su WeChat che mentre la correttezza politica in America è iniziata come un modo per evitare di offendere le persone e promuovere l’uguaglianza, nel tempo ha contribuito a trasformare una serie di opinioni discutibili in un sistema di dogmi: per esempio che l’immigrazione, il libero scambio e la globalizzazione siano sempre e comunque cose positive; che gli appartenenti a minoranze siano tutte vittime del sistema; che le grandi potenze siano responsabili del pattugliamento del mondo.

Al giorno d’oggi, ha scritto Sun, la correttezza politica è “un fardello, una sorta di giogo che l’America ha posto su se stessa, una schiavitù volontaria”. Rifacendosi al tramonto dell’ideologia maoista alla fine degli anni ’70, Sun ha aggiunto che “l’attacco di Trump al politicamente corretto assomiglia allo smantellamento dei rigidi dogmi del passato che accompagnò quel periodo di riforme e aperture”.

La probabile sconfitta di Trump alle elezioni non ha scoraggiato i liberal cinesi: la sociologa dell’Università Tsinghua (Pechino) Guo Yuhua ha recentemente ritwittato un tweet di Trump in cui il Presidente ancora in carica esclama “WE WILL WIN!”, aggiungendo le emoji di un pugno chiuso e due mani che pregano. La signora Guo, forte sostenitrice dei contadini impoveriti e degli intellettuali imprigionati, elogia il signor Trump come un realista che non ha seguito le politiche “utopiche” della sinistra americana.

Alcuni intellettuali cinesi non condivido però l’idea che Trump sia un simbolo progressista: uno di essi è lo storico Xu Jilin, che in un post su WeChat ha definito l’elezione di Trump nel 2016 uno dei quattro principali sintomi dell’ascesa di un populismo distruttivo simile a quello del secolo passato.

Un altro scettico è il professore di diritto dell’Università di Pechino Zhang Qianfan, che rimprovera i liberal cinesi di essersi talmente invaghiti di teorici del libero mercato come Friedrich Hayek da credere erroneamente che qualsiasi politico statunitense di destra sia un difensore della libertà: “Questo malinteso non solo ci costerà alleati nella lotta contro il totalitarismo, ma ha già creato una confusione di valori nel mondo dei liberal cinesi e potrebbe persino cambiare il significato stesso dell’espressione liberalismo“, ha scritto Zhang un mese fa in un articolo tradotto dal sito Reading the China Dream.

“Se i liberal cinesi si oppongono all’uguaglianza, alla separazione tra chiesa e stato, e a diritti come  il matrimonio gay per motivi religiosi, e se sostengono una particolare fede come una sorta di ortodossia nazionale, allora cosa resta del liberalismo?” ha aggiunto.

Una risposta è stata fornita dal politologo Yao Lin in un articolo per il Journal of Contemporary China all’inizio di quest’anno. Secondo Lin molti intellettuali liberal cinesi sono vittime di quello che definisce beaconism, una forma idolatria per tutto quello che proviene dagli Stati Uniti, il che comporta che anche quando questi intellettuali lottano per i diritti umani, riflettano comunque una impostazione colonialista e razzista.

Altri liberal cinesi hanno approvato la mossa di Trump di impedire ai cittadini di alcuni Paesi islamici di entrare negli Stati Uniti. In un dibattito del 2018 su Edmund Burke apparso sulla rivista Open Times, il costituzionalista Gao Quanxi ha giustificato il divieto di immigrazione sostenendo che intendeva difendere “l’unicità del popolo americano” e opporsi “all’indebolimento della società dovuto al pluralismo sfrenato”.

È improbabile che la presidenza di Biden smorzi il sostegno dei liberal cinesi al conservatorismo americano. Molti di essi rimangono comunque ostili a politici come Alexandria Ocasio-Cortez: ritwittando un montaggio delle sparate dell’astro nascente dei democratici, ancora la sociologa Guo Yuhua ha commentato: “Sembra un film già visto”, alludendo naturalmente alla Rivoluzione Culturale.

Questi feroci dibattiti rispecchiano l’altrettanto concitato panorama culturale della Cina, e suggeriscono che potrebbe essere più facile per Washington calibrare una nuova politica estera nei confronti di Pechino piuttosto che impegnarsi ad aiutare dissidenti e intellettuali liberal, come forse vorrebbe fare ancora Biden [opinione del New York Times!, ndt).

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