Fino a ieri tutti ironizzavamo sull’utilizzo dei gessetti colorati come unica risposta agli attacchi terroristici che hanno funestato l’Europa negli ultimi anni: una reazione d’ordinanza, divenuta quasi istintiva, assieme ai palloncini, le sfilate e Imagine di Lennon. Tuttavia, dopo l’attentato kamikaze di Manchester al concerto della pop-star Ariana Grande, abbiamo iniziato a rimpiangere questo scampolo di liturgia, constatando con amarezza come persino i gessetti colorati siano diventati una risposta troppo “forte” alle stragi jihadiste. Se lo scopo è infatti quello di far finta che non sia accaduto nulla, ecco che qualsiasi tributo che rimandi al mondo dell’infanzia ora potrebbe diventare un ostacolo all’oblio imposto dalla politica e dai media, perché un solo gessetto colorato impedirebbe di dimenticare che tra le vittime c’è anche una bambina di otto anni.
Le reazioni delle ultime ore segnino il punto di non ritorno nella “normalizzazione” del fenomeno; è un fatto che per questo sangue, il più innocente possibile, non ci si sia indignati abbastanza: persino coloro i quali non perdono un’occasione per ricordare via social network la sofferenza dei bambini di tutto il mondo (ultimamente si portano molto i siriani, ma l’evergreen è sempre il bimbo africano) non hanno trovato parole adatte per stigmatizzare la carneficina.
La “Cura Ludovico” sta forse cominciando a dare gli effetti voluti: sono pochi quelli ancora capaci di dare una risposta sincera, umana, al terrorismo; quasi tutti si limitano ad attendere lo spin giusto per accodarsi alla reazione “corretta”. Il problema è che talvolta (anche se purtroppo non sempre), l’anima si ribella ai condizionamenti e lo sdegno riemerge assieme alla paura e alla rabbia.
Bisogna dunque sempre fare attenzioni agli spin che vengono messi in giro per manipolare l’opinione pubblica: ricordo, per esempio, che quando a Orlando vennero sterminate decine di frequentatori di un locale gay, i media puntarono tutta l’attenzione sulla matrice “omofoba” dell’attentato, per oscurare quella jihadista e far così ricadere indirettamente la colpa su Donald Trump. Per loro sfortuna lo spin gli si ritorse contro quando Milo Yiannopoulos, un rappresentante britannico della destra “alternativa” (e gay fino alle midolla), intervenne in una città blindata per timore di ritorsioni contro le moschee con un memorabile discorso in favore del candidato repubblicano: non dico che sia stato determinante per la vittoria di Trump, ma è sicuramente un caso notevole di “inversione” (dello spin, intendo).
Per quanto riguarda l’attentato di Manchester, la prima lettura “riallineante” in cui mi sono imbattuto è quella che insiste sulla composizione del pubblico del concerto, un dato che dimostrerebbe come il terrorista volesse colpire “ragazze, donne e omosessuali”. L’intenzione di questo spin, sulla breve distanza, assomiglia molto a quella voluta per il massacro Orlando: distogliere l’attenzione sulla matrice islamista per addossare la colpa ai “populisti”, che oltre a essere xenofobi sono ovviamente anche machisti e omofobi. Una conseguenza non voluta, anche qui, potrebbe essere quella di far sentire tutti coinvolti e quindi di aizzare lo spirito di “crociata” in categorie che, per conformismo e ipocrisia, solitamente rimangono defilate.
Un altro spin emerso nelle ultime ore è quello del “tassista mussulmano buono” che offre passaggi gratuiti a chi fugge dall’attacco al concerto di Ariana Grande. Nell’ansia di metter da parte le vittime reali per concentrare tutta l’attenzione su un inesistente “pericolo islamofobia”, i giornalisti inglesi l’hanno fatta grossa, spacciando un tassista sikh per un muslim:
L’indignazione dei lettori, scatenata soprattutto dal fatto che non c’era alcuna possibilità di equivocare sull’identità etnico-religiosa del tassista (l’autore della foto è un importante rappresentante della comunità sikh a livello internazionale), ha costretto diverse testate, tra le qual il “Daily Mirror” e “Cosmopolitan”, a scusarsi e modificare i propri articoli. Persino le diverse associazioni sikh presenti in Inghilterra non hanno potuto nascondere l’irritazione di essere scambiati con coloro che da secoli considerano persecutori. Solitamente, infatti, gli appartenenti a questa comunità sono tra gli immigrati più pacifici (di recente anche in Italia abbiamo visto come non ci sia stata alcuna protesta contro la sentenza con cui un giudice ha proibito a uno di loro di indossare il pugnale sacro); tuttavia i media anglosassoni sono riusciti nell’impresa di farli infuriare.
Infine, un’ultima sconcertante “tendenza” è quella di gridare vittoria (sic!) ogniqualvolta i terroristi alzano la posta. L’intenzione, seppur squallida, è piuttosto chiara: dal momento che siamo stati abituati a credere che qualsiasi reazione ci farebbe diventare peggiori di chi ci attacca, dobbiamo perciò convincerci che la nostra strategia si stia dimostrando vincente nel momento in cui non ci ribelliamo nemmeno agli atti più crudeli e insensati.
Credo che per i prossimi attentati questa chiave interpretativa riscuoterà ancora più successo tra politici e giornalisti. Il che, lungi dal persuadere i terroristi a desistere, presumibilmente li farà diventare più sicuri e spregiudicati: che lo scopo di chi ci attacca sia quello di “farci diventare come loro”, è infatti una fantasticheria esistente solo nelle nostre teste. Ciò che vogliono è distruggerci, testare il limite massimo dell’orrore a cui possiamo abituarci prima di sferrare il colpo finale.
Per tornare all’inizio: tutto questo orrore, al quale non potrò mai abituarmi (sarò un sentimentale?), mi riporta alla mente l’imbarazzante dialogo che si svolse durante le celebrazioni del post-attentato parigino del novembre 2015, quello in cui un padre cercava di convincere l’incredulo pargolo che i fiori fossero più forti delle pistole. All’epoca il filmato fece commuovere molti di quelli che adesso fanno scena muta. Chi però non vuole auto-condannarsi al silenzio deve riconoscere che a Manchester, almeno metaforicamente, anche quel bambino è morto. I fiori non hanno fermato le pistole.