I fumatori hanno meno possibilità di morire di coronavirus?

Un dato che risalta nelle ultime statistiche disponibili sulla pandemia da coronavirus è che i fumatori hanno meno possibilità di essere ricoverati rispetto ai non fumatori. Il trend era già emerso in Cina ed è stato confermato dalle statistiche tedesche, americane e francesi.

Secondo i dati ufficiali forniti da Pechino, solo il 9,6% dei fumatori è stato ricoverato in ospedale a fronte del 31,2% previsto (<0,001).

Il più recente campionamento del Centers for Disease Control conferma che tra 7.162 pazienti americani ricoverati, 6.901 erano non fumatori (96,3%), 165 ex fumatori (2,3%) e solo 96 fumatori (1,3%).

Anche le ultime statistiche francesi attestano, come dicevamo, la bassissima incidenza del virus tra i fumatori.

Esistono studi che possono offrire una spiegazione al fenomeno: per esempio, un paper pubblicato nel novembre 2018 dall’American Journal of Physiology (Nicotine and the renin-angiotensin system) sostiene che il consumo di nicotina ridurrebbe l’espressione dell’ACE2, l’enzima utilizzato dal SARS-CoV-2 per penetrare nelle cellule polmonari.

Un studio cinese più recente (marzo 2020) ribalta però tale conclusione e sostiene invece che l’espressione dell’ACE2 sarebbe più alta nei fumatori. Ciononostante, una ricerca appena pubblicata, basata sempre al caso cinese e condotta da due medici greci e uno newyorchese, Smoking, vaping and hospitalization for COVID-19 (4 aprile 2020), “non condivide la tesi che il fumo sia un fattore di rischio per il ricovero in ospedale per COVID-19” e afferma che “i consigli generici di smettere di fumare per diminuire i rischi per la salute rimangono validi, ma al momento non è possibile formulare raccomandazioni riguardo l’incidenza del fumo sul rischio di ricovero per COVID-19”.

Uno studio del marzo 2020 su bioRxiv (Cigarette smoke triggers the expansion of a subpopulation of respiratory epithelial cells that express the SARS-CoV-2 receptor ACE2) suggerisce che “smettere di fumare potrebbe ridurre la suscettibilità al coronavirus”, e tuttavia al contempo afferma che “il fumo induce i polmoni ad aumentare l’espressione di cellule secernenti muco ad alto contenuto di ACE2 e l’ACE2 converte l’Ang-II (vasocostrittore, pro-infiammatorio) in Ang- (1-7) (vasodilatatore, antinfiammatorio)”. Il che offre, per dirla in breve, una spiegazione indiretta su perché alcuni fumatori abbiano potuto sviluppare una sorta di “protezione” contro l’infiammazione da coronavirus (alla fine la vera causa per cui si finisce in ospedale).

Alcuni commentatori sono risaliti a due studi di parecchi anni fa, uno del 2003 per “Immunology” (Evidence for the immunosuppressive role of nicotine on human dendritic cell functions) e uno del 2004 per “Clinical and Vaccine Immunology” (Immunosuppressive and Anti-Inflammatory Effects of Nicotine Administered by Patch in an Animal Model) che analizzano il ruolo immunosoppressivo della nicotina.

Tali osservazioni, una volta piuttosto pacifiche e quasi scontate (“La nicotina altera una vasta gamma di funzioni immunologiche, comprese le risposte immunitarie innate e adattive”; “L’esposizione cronica al fumo di sigaretta sopprime una vasta gamma di parametri immunologici”), potrebbero acquisire un significato nuovo considerando che i sintomi del coronavirus sarebbero aggravati proprio da una reazione “eccessiva” del sistema immunitario, la cosiddetta “tempesta di citochine”, una risposta infiammatoria e incontrollata che causa il decesso.

Secondo l’infettivologo spagnolo Roger Paredes, “la risposta infiammatoria è una reazione naturale del sistema immunitario, è necessario riparare il danno cellulare. Nella polmonite normale, i germi danneggiano il tessuto polmonare e il sistema immunitario genera una risposta infiammatoria per fermarlo. Il sistema immunitario ‘uccide’ alcune cellule per riparare il tessuto danneggiato. Invece il coronavirus invia tonnellate di cellule che generano una risposta infiammatoria incontrollata, non solo nei polmoni ma diffusa nell’intero organismo”.

Proprio per impedire la “tempesta di citochine”, uno studio ancora di “Clinical and Vaccine Immunology” del marzo 2013 (Targeting the “Cytokine Storm” for Therapeutic Benefit) propone la soppressione controllata della risposta immunitaria annoverando la nicotina tra i “candidati” terapeutici a svolgere il ruolo.

Tutti questi studi vanno naturalmente presi cum grano salis, ma qualora emergesse realmente un “effetto protettivo” della nicotina nei confronti di taluni agenti patogeni, non è improbabile che gli scienziati tenteranno di trarne un derivato in grado di produrre lo stesso effetto escludendo i danni causati della sostanza.

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