Sono ancora moribondo causa influenza (ci eravamo abituati troppo bene col covid), ma voglio finire questa oscena serie di film osceni prima che termini il 2022. L’auspicio per l’anno nuovo è di smettere di guardare pellicole horror perché a) fanno più schifo che paura, b) sono un veicolo di propaganda di ideologie insulse e c) il genere ha perso tutta la sua originalità sia dal punto di vista contenutistico che estetico.
Presentato come “horror dell’anno”, Smile è sicuramente tale se si usa come termine di paragone tutte le porcherie uscite nel 2022. In sé, però, non è un film che consiglierei: prima di tutto, perché è etichettato come “horror psicologico” e ciò significa esser pronti a domandarsi per un paio d’ore se le scene a cui si assiste siano “reali” (s’intende, naturalmente, a livello di celluloide) o se siano il frutto dell’immaginazione dei protagonisti. Ad ogni modo, sempre premettendo che vado giù tutto de spoilere (come vi ho precisato un milione di volte, quindi non frignate nei commenti sennò censuro), la storia comincia in un ospedale psichiatrico, dove la figlia di Kevin Bacon (che in realtà assomiglia più alla madre Kyra Sedgwick -si vedano i tipici nei facciali “levantini”-, cosa che probabilmente le ha assicurato un eccellente pedigree hollywoodiano *occhiolino occhiolino*) è alle prese con i tipici problemi dei film americani ambientati in clinica: “Sto mignottone nun c’ha na cippa de assigurazzione ma noi o’ aiutamo o’ stesso perché c’avemo l’etica der capitalismo”. Allora arriva la solita donna pazza (uno stereotipo che non rappresenta affatto le donne reali) che però non si comporta come tale perché mestruata o d-parola, ma per un’antica maledizione che adesso ha passato alla figlia di Bacon, la quale è comunque psicologica e come tutti i sanitari americani “ama fare il medico”. È però anche una donna sola con il tipico gatto e l’altrettanto caratteristico bicchiere di vino rosso in mano (nella femmina statunitense espressione di indipendenza, intelligenza e benessere), nonostante si sia risposata con un uomo di colore, che pur essendo nero, cioè buono, non le crede e pensa sia “una storia di fantasmi del cazzo” e che la sua compagnia bianca abbia la stessa malattia mentale della sua sporca madre bianca (morta suicida anni prima). Baconella cerca quindi conforto in famiglia, ma sua sorella è una persona egoista perché è più preoccupata del benessere del marito e dei figli piuttosto che del mondo intero (cosa che invece tiene sveglia di notte la nostra crocerossina), e alla fine la “maledizione” la obbliga a regalare il suo gatto morto al nipote e a sclerare di fronte a tutti gli inviati per il compleanno di quest’ultimo. Disperata, la Bacon è costretta a rivolgersi all’ex marito, uno sbirro che le passa informazioni confidenziali attraverso le quali è in grado di risalire alle radici della maledizione, cominciata niente di meno che da un… commercialista! L’unica soluzione trovata dalla dottoressa è quella di isolarsi dal mondo per non passare la sfiga a un’altra persona (che si trasmette uccidendosi davanti a qualcuno sorridendo), pertanto ritorna nella casa, ormai diroccata, dove si è suicidata la madre e lì viene ossessionata da patetici effetti speciali, fino a quando non giunge in soccorso l’ex marito che assiste al suo suicidio e si becca la maledizione del “sorriso”. Un finale peggiore non si sarebbe potuto architettare, perché è palesemente una paraculata in vista di un sequel che non si sa per quale motivo la gente dovrebbe andare a vedere, considerando che la solfa è potenzialmente in grado di durare all’infinito proprio nella misura in cui la protagonista è riuscita a “risolvere” la maledizione (affrontando i propri demoni interiori, elaborando il lutto della madre suicida ecc…) ma ciò non le ha impedito di “passarla” ad altri. Smile 2 sarà dunque identico al primo ma con un poliziotto basso (tale Kyle Gallner) come protagonista.
V/H/S/94 è un film di merda (giuro!) girato negli Stati Uniti nel 2021 ma a quanto pare uscito in Italia solo quest’anno, o forse sono io che l’ho visto di sfuggita mesi fa e non ricordo neanche se fosse sottotitolato o meno. È un horror a episodi, dei quali uno in indoesiano (questo me lo ricordo, lol) a mezza strada tra il mockumentary e lo shockumentary (a furia di guardare film schifosi si comincia a parlare da schifo) e fa parte di un’insignificante serie ispirata al cosiddetto found footage (il genere del “filmato ritrovato” ormai esausto dopo oltre vent’anni di sfruttamento ossessivo). Il primo episodio ha per protagonista un uomo-topo (che sinceramente fa meno paura dei trans che leggono le fiabe ai bambini) e una setta che ha iniziato un culto basato sul mostro nelle fogne di una città del Midwest (che per il tipico regista horror è terra incognita popolata da bifolchi -ovviamente bianchi razzisti- tonti e creduloni). Il secondo episodio è una veglia funebre dove accade qualcosa di abbastanza prevedibile per un film dell’orrore (ai lettori il compito di risolvere l’enigma impossibile). Il terzo episodio è quello in indonesiano, che inizia con uno scienziato pazzo che squarta e puntura a caso dei poveracci (il tutto senza versare una goccia di sangue!) per creare ibridi uomo-macchina: dopo pochi minuti arrivano dei militari e lo spezzone si trasforma in uno sparatutto caotico e indecifrabile. L’ultimo episodio è il più interessante, perché c’è di mezzo la “satira politica” (seeeeeeh): una milizia (indovinate?) bianca suprematista (non mi dire!) vuole “rendere di nuovo grande l’America” (*occhiolino occhiolino*) con una “super arma metafisica” che sarebbe del sangue di vampiro usato come esplosivo (se ho capito bene, perché è comunque roba soporifera). Oh avete capito stu filme tiene pure la critica politica: il problema è che o gli sceneggiatori sono stupidi, o sono americani (endiadi, è vero). Perché la morale è piuttosto ambigua: questi supermatisti bianchi da quel che sembra prenderebbero di mira i “peccatori” non solo per quel che rappresentano, ma principalmente in quanto vampiri. Però è impossibile che negli Stati Uniti attuali una satira degli assalitori del Campidoglio sia caratterizzata da tale ambiguità: per me semplicemente si tratta di una “svista” degli sceneggiatori che hanno cercato di incastrare l’idea iniziale, a loro parere originale (sangue di vampiro che esplode alla luce del sole, uuuh), in un contesto “politicamente corretto”.
Don’t worry darling (MAI, MAI!, TRADURRE I TITOLI) è un horror-thriller fanta-psicologico (più le etichette aumentano, più si ha la certezza della fregatura) che muove dalla delirante paranoia del cinema americano nei confronti degli anni ’50 (si veda il già recensito Monstrous). Presentato come una pellicola ambiziosa, dove l’ambizione risiede solo nella durata esagerata e sproporzionata alle vicende narrate, Don’t worry darling è intriso della nota morale pseudo-progressista secondo la quale sarebbe meglio vivere nella società di merda in cui ci troviamo piuttosto che in qualsiasi altro posto migliore. Spoilero subito perché non abbiamo tempo da perdere: un marito insoddisfatto della sua vita coniugale decide di coinvolgere (a sua insaputa) la consorte in un progetto di realtà virtuale/parallela che porta chi vi partecipa in un mondo “dove le cose sono come dovrebbero essere”. Gli anni ’50, appunto, dove i mariti hanno un impiego stabile e le donne passano il tempo a bere cocktail e occuparsi della prole. Tuttavia la protagonista sente che gli manca qualcosa e scopre l’inghippo: siccome lei “amava il suo lavoro” da medico specializzando (si veda Smile), quando sgobbava trenta ore di seguito e non vedeva mai il marito, allora decide di abbandonare la felicità (obiettiva) degli Happy Days e riprendersi la sua “libertà”, traguardo a cui può aspirare solo uccidendo il marito sia nella simulazione che, di conseguenza, nella vita reale. A parte che sono due ore piene delle stesse identiche scene a fronte di un “mistero” che lo spettatore, a meno che non sia ritardato (è vero, è l’America, mi dimentico sempre), riesce immediatamente ad afferrare; a parte che non viene mai chiarito come la realtà interagisca con la simulazione (la maggior parte dei “colpi di scena” intervengono come meteore nella trama); a parte questo, dicevo, anche qui sussiste lo stesso problema di fondo degli altri film: la morale. E siamo perciò ancora costretti a chiederci: o gli sceneggiatori a stelle e strisce sono tutti dei reazionari in incognito, oppure semplicemente non riescono a ragionare su quello che scrivono e buttano giù idee a getto per poi combinarle assieme in qualche modo. Forse sarà snobismo intellettuale, ma personalmente non credo che gli americani siano in grado di reggere una morale ambigua: il loro cinema è in bianco e nero anche se coloratissimo, nel senso che comunque si arriva a una conclusione inequivocabile. In tal caso, che è meglio essere “liberi” nel 2022 che “schiavi” nel 1950. Certo, ma allora si doveva presentare questa “libertà” con qualche connotazione positiva che non fosse la realizzazione della donna attraverso un lavoro ridotto a pura e semplice schiavitù. Oltre a tutto ciò, ancor più ridicole le storie che circondano la realizzazione della pellicola, cioè la cacciata dal set dell’insopportabile Shia LaBeouf (questo attore è un pericoloso malato mentale la cui carriera non è ancora finita nel cesso perché ultra-dem, oltre che dotato di un particolare pedigree su cui non è opportuno soffermarsi per intuibili motivi) e i contrasti tra la regista Olivia Wilde (starlette ultrafemminista) e la protagonista Florence Pugh, che ha disertato i tour promozionali sia perché spaventata dal LaBeouf (comunque subito rimpiazzato da Harry Styles) sia perché irritata, da buona britannica, dalle scene di sesso esplicito, comprendenti un mega-cunnilungus nelle sequenze iniziali (piazzato lì per dar l’idea che la coppia non sia veramente negli anni ’50, ma che al contempo sembra quasi suggerire che persino gli yankee puritani di una volta ci dessero dentro con gli atti preparatori alla copula). Devo andare avanti? Scemo chi guarda.
Matriarch è un filmaccio distribuito da Disney+ (ma non aveva a che fare con Topolino una volta?) che si inserisce nel filone “gattarhorror”. La protagonista, Jemima Rooper, è una lesbica cocainomane che lavora in ufficio portandosi un po’ di vodka nella borraccia e siccome questo stile di vita le induce fantasie splatter e in ultimo la fa sclerare (ma perché nei film le donne continuano a sclerare? Come si può perennemente ritrarre l’equilibrata e razionale natura femminile in un modo così falso e tendenzioso?), allora decide di tornare dalla madre, la Matriarca, nel suo paesino natale, la contea britannica di Een-cool-ai-loop (vabbè, a parte gli scherzi, il Somerset). E così la protagonista, dotata di qualità attoriali ai limiti del reato (nel senso che bisognerebbe chiamare la polizia per come recita), scopre che mamma-matriarca è una maniaca sessuale a capo di una setta che attraverso le orge sottomette gli abitanti del paesino. Ho trovato un paio di commenti icastici online: “Mega fognone nero” (ottima descrizione) e “Il vero horror è aver girato questo film”.
Chiudiamo con l’altro “horror dell’anno”, The Menu: un tentativo di satira sociale con Ralph Fiennes nelle vesti di “masterchef” d’eccezione che raduna i bauscia d’oltreoceano per un’ultima cena col botto. Sinceramente, visto l’andazzo, credevo che in un horror a sfondo gastronomico c’entrasse quasi d’ufficio il cannibalismo, tematica che il mainstream sta pompando in maniera disgustosa. Invece è solo la tipica storiella medio-progressista all’insegna della violenza insensata. Meglio così. Comunque, The Menu è, come dicevo, un abbozzo di critica sociale in forma di horror che riesce a stare in piedi per meno della metà della sua durata, almeno fino a quando la sceneggiatura non diventa una “coperta troppo corta” e già dopo il secondo omicidio si comincia a sperare che il film finisca il più presto possibile. Partiamo dalla morale del film, che è tipicamente americana nonostante il regista britannico (Mark Mylod, seconda scelta rispetto ad Alexander Payne che forse -forse- sarebbe riuscito a fare qualcosa di meglio): i ricchi fanno schifo, i poveri fanno meno schifo. In sostanza c’è questo chef stellato che invita persone che non sopporta (il critico culinario, l’imprenditore, un attore che ha recitato in un film che non gli è piaciuto – davvero…) a una cena in cui li farà morire tutti in una sorta di grande sacrificio per purificare l’umanità. L’unica a salvarsi è una prostituta assoldata da uno dei partecipanti, un gourmand dilettante estremamente spocchioso (stereotipato ai limiti dell’inverosimile come tutti gli altri personaggi), la quale ordina un semplice e innocente hamburger e viene risparmiata. Nel migliore dei casi, una fiaba macabra dal finale patetico che nemmeno la mentalità spicciola dello spettatore medio americano potrebbe apprezzare; nel peggiore, un modo per rendere insensata qualsiasi critica alla società contemporanea riducendo i conflitti tra le classi a un fumetto per ragazzi. Non penso però ci sia della malizia, anche perché regista e sceneggiatori alla fin fine contrappongono al cibo raffinato hamburgers e marshmallows, come a dire che per uno yankee mangiare un piatto decente almeno una volta nella vita significa atteggiarsi a Mister Monopoli. Quanto sono insulsi gli americani anche quando vorrebbero apparire riflessivi? Poi non venitemi dire che sbaglio a invitarvi tutti a tornare al cinema horror cecoslovacco degli anni ’20 del XX secolo (anch’esso etnicamente connotato, ma non si può aver tutto dall’orrore).