I vestiti del tecnocrate (Sergio Romano e la scomparsa di Ciampi)

Nel corso degli interminabili ludi funebri per Carlo Azeglio Ciampi, una menzione speciale per l’affetto e la devozione filiale va al “Corriere della Sera”, che nel giorno della scomparsa è riuscito a riempire ben quindici pagine ripetendo ad nauseam i soliti 4-5 concetti (VirtùDiscrezioneMoralePadrePatria), con picchi di comicità involontaria nei sdilinquimenti sulla “meticolosità calvinista” di colui che lui che ebbe il compito di “portare la virtù al potere” (S. Cassese).

Per eccesso di grazia, il quotidiano di Via Solferino (se si può ancora definirlo così) ha offerto anche un gustoso siparietto tra Giavazzi e Prodi, nel quale il “professore” ha voluto rimarcare in modo fulmineo e piccato il proprio zelo eurista:

«È destituito di qualsiasi fondamento e del tutto privo di senso quanto scrive Francesco Giavazzi. L’entrata nella moneta unica europea fu tenacemente e inflessibilmente voluta da me e da tutto il mio governo, senza che mai sia stata presa in considerazione, da nessuno, una qualsiasi ipotesi di ritardo» (vedi il trafiletto qui accanto).

Tuttavia, il meglio sarebbe arrivato nei giorni successivi, quando Sergio Romano dalla sua rubrica avrebbe intrapreso un serrato corpo a corpo con qualsiasi lettore si fosse azzardato esprimere la benché minima riserva nei confronti di Sua Eccellenza la Buonanima.

Vediamo allora quello che l’ex ambasciatore è riuscito ad affermare riguardo a Ciampi nelle ultime settimane.

Il 25 settembre cominciano ad arrivare le prime lettere sull’ex Presidente della Repubblica: sono addirittura tre e occupano quasi tutta la rubrica.

Nella prima (Le svolte della storia), un lettore avanza l’ipotesi che se l’Italia fosse rimasta una monarchia, l’impegno europeista di un “Re Ciampi” sarebbe stato ancora più incisivo. Romano replica in modo blando: «Non sarebbe spettato al re d’Italia orientare il Paese verso obiettivi europei».

Rispondendo invece alle altre due missive, l’ex diplomatico difende a spada tratta C.A.C. dalle accuse di aver bruciato 60mila miliardi di lire e di aver guidato uno dei programmi più devastanti di privatizzazioni a livello europeo (se non mondiale). Ecco come rievoca il famigerato incontro sul Britannia (a suo dire solo “una breve gita mediterranea”):

«L’incontro sul Britannia con la finanza internazionale servì a rendere note le intenzioni del governo italiano e a stabilire i primi contatti. La favola dei “poteri forti” (che ancora circola sulla Rete) fu diffusa da quei settori della società politica italiana che nascondevano sotto la maschera del patriottismo la loro ostilità a ogni riforma che li avrebbe privati del diritto di mettere le mani sul denaro pubblico».

Infine, per difendere C.A.C. dalle accuse di aver bruciato miliardi di riserve, Romano chiosa:

«Ciampi non voleva la svalutazione perché temeva con ragione che, pur favorendo le esportazioni italiane, avrebbe ritardato quella modernizzazione del nostro sistema industriale che era ormai una delle maggiori priorità nazionali. Era una preoccupazione legittima che torna a suo onore».

Quindi, grazie agli amorevoli consigli della finanzia internazionale, il nostro sistema industriale è stato finalmente modernizzato (“spappolato” o “annientato” parevano termini troppo forti).

Dopo qualche giorno (28 settembre), riprende la querelle sulle iniziative politico-economiche di Ciampi: questa volta la nuova difesa d’ufficio da parte dell’ex ambasciatore («Faccio fatica a immaginare Ciampi nella parte del giocatore d’azzardo») è suscitata da un intervento di Riccardo Perissich (Svalutazione della lira), che nella sua sagacia chiama in causa un altro “Venerato Maestro”, Tommaso Padoa Schioppa (il quadro è quasi al completo: abbiamo già nominato il professore emiliano di cui sopra, manca solo quell’altro con lo pseudonimo di Duns Scoto):

«Caro Romano, ho letto la sua risposta su Ciampi e la svalutazione del ’92. Per curiosità storica, le passo un’altra analisi che mi fece poco tempo dopo Tommaso Padoa Schioppa (allora, se ricordo bene, vicedirettore generale di Bankitalia) e che è parzialmente coincidente con la sua.
Secondo TPS, le motivazioni di Ciampi furono anche dettate da orgoglio; era consapevole che prima o poi avremmo dovuto svalutare, ma non voleva darla vinta agli speculatori. Voleva decidere lui a freddo il momento della svalutazione e sorprendere i mercati. Tipico della speculazione è che non può durare a lungo; in tempi abbastanza rapidi vince o perde. Ciampi voleva durare abbastanza a lungo perché gli speculatori non avessero soddisfazione. Fu la decisione della Bundesbank e anche alcune ambiguità francesi a lasciarci, come dicono gli anglosassoni, con i pantaloni abbassati [L’espressione inglese è “caught with pants down”]»

Senza discutere la fondatezza di tali affermazioni (anche se si tratta di un’interpretazione davvero poco lusinghiera nei confronti del de cuius), vorrei solo ricordare che nel 1993 un certo Monti Mario affermò che «la svalutazione ci ha fatto bene» (quando ci sono di mezzo gli “amici”, si può per una volta dire la verità).

Ciò significa che, da un punto di vista meramente fattuale (lasciando quindi da parte risvolti psicologici e morali), l’unica certezza è che il ritardo di quella svalutazione fu un errore. I motivi per cui ciò accadde sono i più disparati (alcuni fin troppo inquietanti per esser rievocati), ma il dilemma rimane: se Ciampi agì in “buonafede”, allora come economista e politico non fu poi così eccelso; e se agì in “malafede”, allora ci si domanda perché debba essere considerato, usando le parole dello stesso Romano, «un presidente costruttivo».

L’argomento “Ciampi e l’inflazione” ritorna poi il 6 ottobre, con una lettera sulla Crisi valutaria del 1992 (qui accanto). Giusto per ricapitolare, finora Sergio Romano è riuscito a sostenere che l’incontro sul Britannia del 1992 fu una “breve gita mediterranea” e che l’operato dell’allora governatore della Banca d’Italia favorì la “modernizzazione del nostro sistema industriale”.

Con questa risposta egli non aggiunge nulla di nuovo, ma riserva una stoccata non solo al lettore blasfemo che ha osato ricordare che «l’ex presidente “bruciò” nel giro di pochi giorni, 40.000 miliardi di vecchie lire, una “finanziaria” dell’epoca gettata alle “ortiche”», ma anche a tutti i blogger saputelli (spero non ce l’avesse con noi!):

«Per sostenere la lira, la Banca d’Italia comprò la valuta nazionale con le valute straniere delle sue riserve. Quando interruppe gli acquisti aveva nelle sue casse, quindi, le lire, sia pure svalutate, che aveva comperato nei giorni precedenti. La somma di 40.000 miliardi di vecchie lire, citata nelle sua lettera, mi sembra appartenere al linguaggio polemico dei blog e non risponde alla realtà».

Già, Romano ha ragione: i miliardi furono di più.

Il 7 ottobre l’ex diplomatico concede finalmente una tregua dedicandosi a uno dei suoi argomenti preferiti: Putin. Ecco infatti cosa risponde a un lettore che chiedeva lumi sulla nostalgia sovietica nella Russia contemporanea (Rimpianto del comunismo nella Russia di Putin, 7 ottobre 2016):

«Quella che lei definisce “cultura comunista” è in realtà una sorta di nostalgia per il passato sovietico. Le ragioni cambiano a seconda dei gruppi sociali e della loro età. Le persone più anziane ricordano un periodo della storia russa in cui le principali esigenze erano soddisfatte dallo Stato. Gli scaffali erano spesso vuoti e le code di fronte ai negozi inevitabilmente lunghe. Ma i prezzi erano fissati dalle autorità, gli affitti erano modesti, le case erano riscaldate, la sanità e la scuola erano gratuite. Il collasso dello Stato sovietico ha inceppato la grande macchina dei servizi pubblici. L’inflazione in stile latino-americana degli anni Novanta ha divorato i risparmi depositati nelle Casse di risparmio. I negozi si sono riempiti di nuove merci, ma il vertiginoso aumento dei prezzi le rendeva inabbordabili.
Alcuni spregiudicati “capitalisti” hanno approfittato delle privatizzazioni per impadronirsi, a basso prezzo, del patrimonio industriale del Paese, ma hanno creato un enorme divario sociale là dove aveva regnato per più di settant’anni, anche se con parecchie eccezioni, il principio della eguaglianza. L’intervento di Vladimir Putin, dopo il suo arrivo al potere, ha considerevolmente corretto questa situazione e spiega in buona parte la popolarità di cui il presidente russo gode ancora, a giudicare dalle ultime elezioni […]».

Ora, ci si potrebbe domandare cosa c’entri questo con l’argomento in questione: effettivamente nulla in sé, ma molto in confronto a quanto Romano ha sostenuto nei giorni precedenti. Senza voler entrare nel merito dei contenuti, vogliamo solo sottolineare la mancanza di coerenza insita nella visione del mondo dell’ex ambasciatore: infatti è paradossale che egli riesca a provare il medesimo rispetto nei confronti sia di Putin sia di quelli che (in Italia) hanno «approfittato delle privatizzazioni per impadronirsi, a basso prezzo, del patrimonio industriale del Paese». In sostanza, Romano crede fermamente, per motivi che sfuggono, che mentre le privatizzazioni in Russia creano «un enorme divario sociale», in Italia al contrario favoriscono la «modernizzazione del nostro sistema industriale»…

Dopo il gustoso siparietto vetero-sovietico, chiudiamo dulcis in fundo con una delle testimonianze più pregevoli, l’intervento di Armando Luches (ordinario di Fisica presso l’Università del Salento), nel quale il professore rievoca il progetto “pentagonale” degli scienziati italiani con i colleghi dell’ex Unione Sovietica, abrogato per le solite ragioni di austerity. È una storia degna di essere ricordata, in quanto paradigmatica del modus operandi dei tecnocrati:

«Caro Romano, Ciampi ha ricevuto grandi elogi. Sono d’accordo sul ruolo esercitato come presidente della Repubblica, ma non lo sono altrettanto sul ruolo esercitato dal governo Ciampi in campo internazionale. Faccio un esempio, che mi ha toccato personalmente. In un governo precedente era ministro degli Esteri Gianni De Michelis. Per rilanciare il ruolo dell’Italia nei Paesi appena usciti dall’orbita sovietica, si fece promotore di un progetto “pentagonale” di collaborazione scientifica tra Italia e 4 nuove repubbliche tra cui la Cecoslovacchia. Furono stanziati, se non sbaglio, 192 miliardi di lire e pubblicati i bandi. Il mio gruppo dell’Università di Lecce, che aveva da anni collaborazioni con fisici cechi e slovacchi, presentò una proposta di ricerca in collaborazione con l’Istituto di fisica dell’Accademia delle scienze cecoslovacca e la Società Sincrotrone di Trieste. Il progetto fu approvato con un finanziamento di 5 miliardi. La legge, approvata dal Parlamento, fu pubblicata sulla Gazzetta ufficiale. Io, coordinatore del progetto, assicurai ai collaboratori che il finanziamento era certo. Ma il governo cadde, subentrò il governo Amato e poi il governo Ciampi. Lo stanziamento finì, come si dice, “in economia” con la scusa che non era stato speso al 31 dicembre: assurdo, visto che non erano stati erogati! Come avremmo potuto spenderli? Noi ricercatori facemmo una figura che si può ben immaginare e la più che decennale collaborazione con Praga cessò» (Ciampi e la Pentagonale, 21 ottobre 2016).

Ovviamente Romano recita ancora la parte del difensore d’ufficio:

«Mi fa piacere che lei abbia ricordato quella iniziativa. Ma il suo fallimento non può essere imputato a Ciampi. La Pentagonale fu travolta dalla stessa ondata che travolse nel 1992 il suo ideatore, il suo partito e le altre forze politiche che avevano formato le coalizioni degli anni precedenti. Sopravvive oggi in una versione allargata come organo di incontri e scambi di vedute. L’onda, naturalmente, fu quella di Tangentopoli. Ciampi dovette ereditare il naufragio di un intero sistema politico e dette prova di perizia e buon senso».

A oggi pare che la diatriba si sia finalmente conclusa – o, per meglio dire, io ho smesso di seguirla, perché in fondo è come sbattere contro un muro di gomma. Temo che, prima di sentire una parola di verità dalla grande stampa su una delle stagioni più oscure dell’Italia del dopoguerra, dovranno passare anni, se non decenni. A meno che il nostro Paese non si trovi a dover affrontare prove ancora più atroci delle attuali, le quali infine ci costringeranno, voltandoci indietro, a riconoscere che “il tecnocrate è nudo”.

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