In occasione del 25 aprile la maggior parte dei supermercati italiani rimarrà aperta. E i lavoratori che quel giorno non renderanno gli onori dovuti alla sacra celebrazione repubblicana non lo faranno in quanto “fascisti”, ma perché impossibilitati a fare altrimenti.
Altro che la lezione del capitalista e antisemita Henry Ford, che “strapagava” gli operai affinché potessero permettersi di comprare le auto che producevano: attualmente chi fatica nella cosiddetta GDO (Grande Distribuzione Organizzata) non potrebbe nemmeno permettersi di fare la spesa nei punti vendita in cui è impiegato (a meno che non si trattino di discount, ma obiettivamente anche lì l’aumento dei prezzi si fa sentire a fronte di uno stallo perpetuo nella qualità dei prodotti).
Questo già di per sé potrebbe chiudere il discorso sui “valori dell’antifascismo”. Per rincarare la polemica, richiamo qui una postilla dell’amico Andrea Romani sull’orario unico stabilito dal “terribile regime fascista”: le 35 ore ante litteram (dalle 8 alle 14) al fine di “garantire l’intero pomeriggio alle cure della famiglia, dei propri interessi, dello sport e degli svaghi del Dopolavoro”.
Nel 1939 il terribile regime fascista garantiva agli statali l'orario unico 8-14 (si lavorava anche il sabato), al fine di "garantire l'intero pomeriggio alle cure della famiglia, dei propri interessi, dello sport e degli svaghi del Dopolavoro". pic.twitter.com/j2jAEijr3l
— Andrea Romani (v. II) (@giannir93902499) April 20, 2024
Aggiungo solo, seppur non ce ne sarebbe bisogno, che provvedimenti di tal calibro erano emanazione diretta della fatidica Carta del Lavoro, secondo Bottai “espressione del nuovo ordinamento spirituale e giuridico degli italiani”. Tra le tante altre iniziative prese dallo spietato regime in favore dei lavoratori, si ricordano il Regio Decreto del 10 Settembre 1923 che riduceva la giornata lavorativa a otto ore giornaliere (e quarantotto ore settimanali) e poneva severi paletti all’abuso dell’apprendistato (pratica che per qualche ragione oggi entusiasma i boomer); il RD n°112 del 10 gennaio 1935 che istituiva il Libretto di Lavoro e il R.D. n° 1768 del 29 Maggio 1937, quella del “Sabato fascista”, che riduceva l’orario di lavoro a quaranta ore settimanali.
Sul tema fascismo e lavoro, come su tanti altri, gli “anti-” hanno dovuto porre un gigantesco velo pietoso minando di per sé qualsiasi base logica alla loro religione civile, che infatti si è limitata ad obbedire alla propria natura intrinseca di disvalore, giungendo a fare del nulla il collante ideologico di una nazione.
Anche per questo motivo, ci troviamo a dover discutere del monologo di un tizio, tale Antonio Skooraty (non lo scrivo correttamente perché costui, o qualcuno dei suoi lacché, starà tutto il giorno a cercare il proprio nome su Google), che si dice censurato dalla Rai. Per ricapitolare in due parole tutto il bailamme: Skooraty doveva recitare il suo storico discorso in un programma della tv pubblica, ma i dirigenti considerandolo un intervento da campagna elettorale gli hanno rifiutato il cachet (1800 euro per una comparsata di pochi minuti), e il caso è stato subito trasformato nell’ennesima “prova di regime”.
Ipotizziamo pure che qualche pedina governativa in Rai abbia voluto preparare un trappolone al “poeta laureato”, facendolo passare per il solito sinistrorso col “cuore a sinistra e il portafoglio a destra”: in ogni caso lo Skooraty c’è cascato con tutte le scarpe. E non si venga a dire che “il lavoro va comunque pagato”, perché non stiamo parlando di un padre divorziato che il 25 aprile deve farsi almeno 6 ore tra gli scaffali del supermegaipercentro di ‘sta cippa (per tornare ab ovo). Personalmente mi sono convinto che il motivo sia ancora più squallido, oppure ipopolitico (visto che stamo a parla’ de intellettuali aho): siccome lo scrittore ha associato la sua immagine a una serie televisiva sul fascismo che in questi anni è diventata cavallo di punta di una nota azienda privata, la Rai ha eventualmente valutato il rischio di fare pubblicità occulta ai concorrenti, come del resto riporta il sito di news della società stessa:
«L’azienda avrebbe riflettuto sul rischio di fare indirettamente pubblicità alla serie di Sky tratta da M. Il figlio del secolo, il libro premio Strega 2019 di [Skooraty]. Per questo la Rai avrebbe pensato di ospitare lo scrittore gratis e poi avrebbe provato a chiudere a 1.500 euro. Un gettone, insomma. Il monologo era di circa un minuto e mezzo da realizzare e poi leggere in trasmissione. A quel punto avrebbe avanzato la proposta di partecipazione allo scrittore ed il suo agente avrebbe chiesto 1.800 euro».
Ancor più indicativo che sia la stessa premier “neofascista”, Giorgia Meloni, a pubblicare il testo del suo intervento direttamente sul suo profilo Facebook (dal quale, ricorderete, l’anno scorso ha anche lasciato il suo compagno). In esso si parla di nazisti come “demoniaci alleati” di Mussolini e del fascismo come “irredimibile fenomeno di sistematica violenza politica omicida e stragista”, condannando il “gruppo dirigente post-fascista” ora al governo del Paese per aver cercato di “riscrivere la storia”, e dunque consentendo allo “spettro del fascismo” di continuare a “infestare la casa della democrazia italiana”.
L’antifascismo è giunto, letteralmente, alla fantasmagoria. Azzeccato dunque -seppur involontariamente- il meme di un caro seguace, che ha posto la sigla dei Ghostbuster come accompagnamento a un carosello di immagini di un Grande Protagonista del Novecento:
— 𝕳𝖞𝖕𝖊𝖗𝖇𝖔𝖗𝖊𝖚𝖘 🐺🦅🇦🇶 (@roman_jacobite) April 20, 2024
Mi pare che dopo quasi ottant’anni di storia, il teatrino odierno non possa che rappresentare un’ennesima conferma dell’inconsistenza della proposta antifascista. Per citare un vero intellettuale, lo studioso tedesco Rolf Peter Sieferle (1949–2016), che ha realmente subito la censura (in patria come in Italia, infatti i suoi testi sono tradotti col contagocce), l’antifascismo è intrinsecamente fallimentare in quanto rappresenterebbe un tentativo di “installare all’interno di un mondo pienamente relativistico un Assoluto negativo, dal quale possano scaturire nuove certezze”, una natura espressa nella definizione stessa del complesso ideologico, obbligatoriamente negativa.
Persino un bambino arriva a comprendere che non può esistere una definizione univoca di “antifascismo”, nemmeno nella più blanda e generica condanna di una metapolitica “violenza”: non è stata necessaria, del resto, la violenza, per abbattere un regime fascista? Oppure la violenza trasmuta in altro nel momento in cui il suo fine è riconosciuto giusto secondo taluni criteri morali? Questo è il senso di una devalorizzazione ingovernabile che ci riduce al nulla, dal punto di vista morale come politico come… economico (e purtroppo non solo per lo Skooraty di turno).