Il Barocco come stile di vita (Reinhard Raffalt)

Di recente mi trovavo seduto nella sala da pranzo di una locanda altoatesina che porta il bel nome Zum Elefanten e stavo sorseggiando un vino novello i cui effetti benefici si adattavano molto bene alla scena di cui voglio raccontarvi. La porta si aprì ed entrò una coppia di mezza età con un figlio di circa vent’anni, apparentemente proveniente dalla Germania settentrionale. Si sedettero al tavolo e studiarono il menù. Il cameriere, un meraviglioso misto di curiosità e malizia, capì subito che si trattava di viaggiatori di passaggio, privi di qualsiasi conoscenza dettagliata delle convenzione locali. Così attirò gentilmente l’attenzione dei suoi ospiti su un piatto che era elencato come il “piatto dell’elefante” – tra parentesi “per due persone”.

Quando gli fu chiesto cosa significasse, disse: beh, c’è un po’ di tutto, carne, salsiccia e crauti, è il piatto della casa. Così ordinarono per tre persone. Dopo un quarto d’ora il cameriere aprì la porta ed entrò il cuoco, ma era difficile riconoscerlo in quanto nascosto da un piatto come non ne avevo mai visti prima. Si trattava di una catena montuosa in cui le rocce erano fatte di carne e i pendii di crauti. Pancetta di maiale, speck, costolette di vitello e lingua di bue erano ammucchiati in diversi strati, circondati da graziose montagnole di patate e ricoperti da una corona di piccole salsicce che si estendeva in allegre sezioni fino alla cima, dove sventolava trionfalmente una bandierina con il prezzo. Sarebbe bastato per sette persone. Gli ospiti del nord rimasero a bocca parte. Alla fine l’uomo pronunciò una sola parola: Barocco. E diceva la verità.

Il barocco non è solo uno stile artistico, fatto di svolazzi grandiosi, ghirlande di frutta, colonne contorte, pieghe fluenti e tripudi dorati. Il barocco è il sentimento della vita nella sua pienezza e nella sua inesauribile abbondanza, della vita che passa e risorge incessantemente e simultaneamente, piena di sorprese, inganni, mutamenti, ma invincibile come il sole. Ovunque nei nostri paesaggi al margine settentrionale delle Alpi abbiamo tracce significative che ci dimostrano che il barocco non è morto, perché tutto ciò che è fatto per la gioia della propria vitalità conduce al possente sentimento della gloria di questa vita, che non è sufficientemente descritto con il termine Barocco.

È nella natura del Barocco il fatto che non possa essere spiegato. Chi vuole capirlo deve sperimentarlo. Quindi perdonatemi se oggi non trasmetterò delle semplici informazioni ma invece cercherò di offrirvi una piccola esperienza barocca. Quindi, senza dilungarmi ulteriormente in teorie, vi invito questa sera a teatro. Ascolteremo insieme un’opera che è stata scritta per un’intera epoca. Inizia a Mantova nel 1605 e si conclude a Vienna nel 1762, coprendo così i centocinquant’anni in cui il sentimento dell’invincibilità della vita determinò il modo di esistere dell’uomo.

Il nostro teatro non è grande, ma è splendidamente decorato da angeli che suonano le trombe, stemmi e corone. I palchi sono rivestiti di carta da parati in seta rossa e in platea non ci sono file di sedie, così la gente può camminare e chiacchierare mentre i cantanti e i ballerini sul palco eseguono le parti meno belle dell’opera. Abbiamo occupato tutti i palchi, tranne quello centrale, perché è lì che risiede il principe, senza il quale il periodo barocco non potrebbe sussistere. Purtroppo questa sera la sua assenza si fa notare, e quindi gli rendiamo omaggio solo spiritualmente.

Già cominciano a suonare trombe e tromboni, ma non ci lasciamo disturbare: nessuno nell’era barocca si sente obbligato ad ascoltare la musica finché non comincia la trama.

ORFEO

Sì, ma quale trama avrà l’opera? Neanch’io lo so con esattezza. Nel periodo barocco bisogna sempre tenere conto di un certo grado di sorpresa. Una cosa è certa: quello che stiamo ascoltando ora è l’inizio dell’opera Orfeo di Claudio Monteverdi, il più grande maestro del barocco italiano, di cui presto apprenderemo le ulteriori intenzioni. Ora si alza il sipario. È incredibile ciò che si può osservare sul palco. Un paesaggio montano con prati verdi e cascate limpide, ingannevolmente vicino alla realtà. In lontananza, i pastori sono posizionati in modo molto pittoresco, e c’è anche un fauno che si allunga fuori dall’erba – è ovviamente mattina presto.

Il palco è ancora vuoto – ma non lo resterà a lungo. Appare una donna con una tunica ricamata in argento e un copricapo fatto di piume di struzzo bianche. Ha una lira in mano, sale sulla rampa e inizia il prologo. La musica, dice, è venuta per noi dal Parnaso, perché la fama delle nostre gesta si è già diffusa in tutto il mondo, sebbene non abbia ancora raggiunto la sua meta. Naturalmente nessuno ci crede, ma è comunque bello sentire cose così belle su di sé. Lei è la musica, dice, e ha un grande potere: perché i suoi dolci suoni calmano ogni cuore turbato, e possono riaccendere una mente che si è trasformata in ghiaccio, anche solo con nobile rabbia, oppure, se non funziona, con l’amore.

Ora ella nomina il suo eroe: Orfeo vuol cantare le sue lodi, egli che è la voce magnifica del regno delle leggende, colui in grado di cantare in modo così commovente che anche gli animali selvatici si prostrano ai suoi piedi. E perfino gli inferi non riescono a resistere ai suoi lamenti. E ora chiede non solo che noi stiamo in silenzio, ma anche che gli uccelli, le sorgenti e i venti ascoltino attentamente il destino di Orfeo. Un po’ troppo azzardato per i nostri gusti? Forse. Ma il cantore Orfeo, che la musica annuncia, non è una figura leggendaria del passato, risalente al periodo barocco: è un essere presente a cui permettiamo con grazia di dare libero sfogo ai suoi sentimenti perché appartiene alla natura più di noi.

Ora apprendiamo da un pastore che il povero Orfeo era vittima del mal d’amore. Languì nei boschi dell’Arcadia (l’Arcadia corrisponde più o meno alle Alpi) perché non ebbe la sua Euridice, una pastorella bellissima e apparentemente un po’ capricciosa che non lo apprezzava nonostante il suo canto. Ma se è possibile ammorbidire il cuore degli animali selvatici, sarà possibile anche far cedere una donna, e così Euridice alla fine ascoltò Orfeo.

Questa è l’occasione per una celebrazione a cui prende parte tutta la natura vivente. Non solo i pastori e le pastorelle, ma anche gli esseri semidivini che vivono nelle sorgenti, le ninfe. Tutti sono lieti che le infinite lamentele di Orfeo finalmente saranno esaudite e, per precauzione, cantano un inno al Dio dell’Amore, alle cui cure affidano la coppia. Lasciamo ora che le ninfe e i pastori svolgano il loro grande banchetto; ci vorrà del tempo prima che la storia proceda. Perché quando si celebra una festa in età barocca, questa non può concludersi troppo in fretta, né sul palco né nella realtà. Perciò ci domandiamo dove all’epoca si siano trovate le energie per celebrare in ogni momento una festa diversa, il tutto con spese enormi: sfilate, balletti, banchetti di gala, giochi d’acqua, fuochi d’artificio?

IMMORTALITÀ

Oh, non avrei dovuto dirlo, ora siamo già nel mezzo dei fuochi d’artificio. Sono stati accesi a Vienna. Si celebra la grande vittoria del principe Eugenio di Savoia per l’Impero contro i Turchi a Belgrado. Sì, anche i turchi fanno parte del barocco, ma ancor di più la vittoria su di essi. E la celebrazione delle feste è sempre legata a una vittoria: sia essa militare, nel qual caso si celebra il condottiero vittorioso o la sconfitta del nemico; sia essa spirituale, quando si celebra il santo e la sconfitta del peccato. E una vera vittoria può essere celebrata solo da un popolo intero, perché la vittoria è associata alla fama, e nel periodo barocco essa è qualcosa di completamente diverso dalle “pubbliche relazioni” [Publicity].

La fama non riguarda solo la gloriosa reputazione che una persona acquisisce nel mondo attraverso le sue azioni, ma anche l’immortalità. E l’immortalità era una preoccupazione così grande per l’epoca che la gente era costantemente alla ricerca di immagini dell’immortalità umana. Così fecero scendere i santi dal cielo e popolarono con essi gli altari e i soffitti delle loro chiese, e così fecero salire gli antichi dei e gli eroi dell’antichità e popolarono con loro la natura, i giardini, i castelli e i teatri.

Tutto ciò ci riporta a Orfeo. Nel frattempo gli è successo qualcosa di terribile. Un messaggero, terrorizzato, gli ha detto che Euridice è morta per il morso di un serpente: “Ma nulla valse, ahi lassa, Ch’ella i languidi lumi alquanto aprendo, E te chiamando: Orfeo, Orfeo. Doppo un grave sospiro, Spirò fra queste braccia”. Ma quello non è più lo stesso Orfeo. No, questo Orfeo non apparve sulla scena prima di centocinquant’anni dopo Monteverdi; è l’Orfeo del cavaliere Christoph Willibald von Gluck, il figlio di un contadino dell’Alto Palatinato, che avrebbe segnato la fine dell’era barocca a Vienna. Questo Orfeo non si lamenta più, è in lutto. E il suo dolore è senza passione, lieve e sensibile; qui non si esprimono più le contraddizioni del cuore umano, ma solo il puro sentimento.

EURIDICE

Euridice è morta. Se non fosse solo una pastorella, ma un principe o un condottiero, allora sulla scena accadrebbero cose incredibili. La stanza sarebbe immersa nel nero e nell’argento, verrebbero portati fasci di armi e bandiere, seguiti da paggi con cuscini di medaglie, e infine la Morte irromperebbe con grande pompa su un carro trionfale coperto di nero, con la falce sollevata a oscillare con ampio gesto sopra di noi, e tutto suonerebbe come una marcia funebre.

Perché tanta pompa riguardo alla morte? Perché fa parte della vita. Perché la morte è il culmine assoluto della vita. Essa è la porta che trasforma la fama in immortalità. E all’uomo che muore vengono tributati i massimi onori, come se fosse caduto sul campo di battaglia. Un tocco un po’ guerresco, lo ammetto. Ma è meglio fare troppo chiasso per la morte che troppo poco; altrimenti non si potrebbe far chiasso nemmeno per la vita, e allora non esisterebbe il Barocco. Perché nel periodo barocco nulla è dato per scontato: né le passioni del cuore umano, né la grandezza delle conquiste umane, né il paradiso né l’inferno.

Ora Euridice è lì. Naturalmente non nell’inferno cristiano, perché è una figura mitica pagana e, a parte qualche osservazione capricciosa nei confronti del languido Orfeo, non ha certamente causato alcun danno nella sua esistenza arcadica. Ella è negli inferi. Un luogo di lutto, di notte, di oblio, un regno di ombre governato dal tenebroso Plutone. Il palco si trasforma nell’immagine notturna di una città abbandonata, che emerge spettrale dalle acque stagnanti dei canali fangosi. Ogni tanto il sospiro di un’anima defunta, nient’altro. Ma il lamento di Orfeo, lassù nel regno terreno, è così coinvolgente che quaggiù se ne può ancora udire un accenno.

Solo la voce di Orfeo è cambiata. È diventato il suono lamentoso del violino, che il veneziano Antonio Vivaldi lascia fluttuare sospirando sulla rigida architettura del palcoscenico. Lasciamo Euridice alla sua vita oscura e Orfeo al suo dolore, perché il primo atto della nostra opera è terminato, e adesso c’è un intervallo.

BALLATA

Ora un signore si presenta davanti al sipario e annuncia di aver portato con sé da Parigi le ultime chansons. Chi pensa che nel periodo barocco non ci siano stata musica popolare di successo si sbaglia. Ecco una ballata. Il re si è innamorato di una dama. Ora il re chiede al marchese chi sia quella bella donna, e lo sfortunato uomo risponde: mia moglie. Il Re nominerà il Marchese Maresciallo di Francia. Ma la regina invia alla dama uno splendido mazzo di fiori. E quando costei lo annusa, cade morta. Il mondo è di nuovo in ordine. Amusant? Forse. Ma piuttosto pericoloso. Se il re di Francia permette che si cantino cose del genere, e la spiegazione è una sola: non sa ancora che tra cinquanta o sessant’anni scoppierà la Rivoluzione. No, non può saperlo ancora. È troppo impegnato a costruire castelli che attirino l’attenzione del pubblico colto anche in Austria. E in questi castelli fa suonare musica eccellente.

SENSAZIONE DI VITA

L’Orfeo di Monteverdi arriva dall’Italia. La nostra serata odierna è però dedicata al barocco alpino. Allora perché così tanto francese e italiano? Oggi ci stiamo solo lentamente abituando all’idea che non è bello per noi tedeschi vivere senza la Francia e l’Italia. Ma all’epoca del Barocco nessuno qui voleva vivere senza Francia e Italia. Le proposte provenienti da questi Paesi erano troppo allettanti e abbiamo confidato nella nostra creatività per rifare qualcosa di speciale con le idee francesi e italiani. Dal Sud arrivò la legge dell’ordine rigoroso di ogni varietà di vita, dalla Francia una sorta di eleganza pomposa. Abbiamo accolto entrambi con l’apertura dei nostri sentimenti e li abbiamo incorporati nel nostro paesaggio.

Il Barocco, che in origine era lo stile dei principi e delle corti, è diventato una forma di espressione di tutto ciò che immaginavamo fosse l’esistenza. Diverse circostanze hanno favorito questo felice processo. Ne citerò uno meno noto. Un millennio prima del periodo barocco, nella nostra regione furono fondati grandi monasteri, per lo più abbazie imperiali, che potevano essere considerati i centri religiosi e intellettuali del Paese a quel tempo. Grazie alla diligenza, alla cultura, alla pietà e alla fantasia dei monaci, questi monasteri nel corso dei secoli divennero ricchi e potenti, e i loro abati furono spesso nominati principi dagli imperatori. Nel complesso, costituivano una garanzia non priva di problemi, ma altamente produttiva, per il mantenimento del diritto e della moralità. E costituivano un baluardo efficace contro la tendenza alla barbarie, che non sempre riuscivamo a reprimere dalle nostre parti.

Queste abbazie celebrarono ampiamente la loro millenaria esistenza nel secolo compreso tra il 1650 e il 1750. Travolte dall’ondata di espressività barocca, ovunque le genti decisero non solo di trasformare tali celebrazioni in magnifiche feste, ma anche di sfruttarle come un’opportunità per erigere un nuovo monumento alla creatività della cultura monastica. E vennero costruite nuove chiese, nuove prelature, piccole “case di piacere” [Lustschloss] per l’abate e i suoi ospiti, biblioteche come monumenti alla cultura monastica, sale per banchetti e stanze di rappresentanza per la tanto attesa visita dell’Imperatore. In poche parole, quasi sempre sorgevano abbazie completamente nuove.

Questi progetti misero in luce un problema che il periodo barocco aveva raramente incontrato con tanta rilevanza altrove. Il nuovo stile doveva essere integrato nel paesaggio. Nelle pianure della Francia e nelle dolci valli dell’Italia, il Barocco si concesse il lusso di trasformare la natura sottomettendola alle leggi autocratiche della corte principesca attraverso un piano immenso e dettagliato. Nel paesaggio alpino ciò era possibile solo in misura limitata, perché le montagne non possono essere modellate in stile barocco. Quindi lo stile dovette cedere il passo. E questa è stata una benedizione.

Ciò che emerse fu una generosa semplicità architettonica all’esterno, ma uno splendore all’interno che non poteva essere definito né da un’eleganza pomposa né da una varietà rigorosamente ordinata, e quindi non era né di gusto francese o italiano, ma alpino. I nostri antenati hanno ingegnosamente trasformato l’antica esigenza di una vita nel chiarore della luce del Sud e l’hanno combinata con la loro aspirazione alla leggerezza dell’esistenza. Il Paradiso, dimora degli angeli e dei santi, divenne un luogo di felicità. E per rendere tutto ciò credibile, cercarono di dare al fedele l’illusione di essere già stato trasportato in paradiso.

Poiché il paradiso cristiano era stato così presentato, i principi, che temevano la concorrenza dei santi anche nel periodo barocco, si impossessarono del paradiso pagano: si ritrassero come membri dell’antico cielo dei dei, Olimpo. E con l’Olimpo, naturalmente, giunse l’idea di quel paesaggio libero dal dolore, chiamato Arcadia, popolato di ninfe, pastori e fauni, che fa da sfondo all’Orfeo. Questa Arcadia, a sua volta, non poteva essere solo un paesaggio onirico. Perché se un principe si sente come Giove, Apollo o Ercole, alla fine deve dare ai suoi cavalieri l’opportunità di sentirsi in qualche modo parte di un mondo antico. E anche il ruolo delle dame di compagnia come ninfe non doveva essere sottovalutato. Così il mondo dei sogni dell’Arcadia si avvicinò sempre di più alle dimensioni del nostro paesaggio alpino. E quando i corni delle battute di caccia risuonavano nelle nostre vaste foreste, non era difficile immaginare che Diana, la dea della caccia, vagasse per l’Arcadia barocca che è la nostra patria.

IL DIRITTO DIVINO

Posso dimostrarvi che queste antiche divinità greco-romane erano più di una semplice fiaba nei nostri paesi, grazie a un documento scritto nientemeno che dall’imperatore Ferdinando III a metà del XVII secolo. Un giorno gli venne l’idea di far rappresentare la Casa d’Asburgo in tutto il suo splendore da un pittore. Scelse il famoso discepolo di Rubens, Sandrart, e formulò la sua commissione all’artista come segue:

“Giove seduto su un’aquila, sulla terra, con un ramoscello d’ulivo nella mano destra, il suo fulmine nella mano sinistra, e incoronato di alloro: questo potrebbe essere il mio ritratto. Dal cielo le due imperatrici defunte emergono come Giunone e Cerere, l’una offrendogli ricchezze, l’altra fertilità. La regina di Spagna come Minerva, che gli offre equipaggiamento bellico e opere d’arte. Bellona, ​​l’attuale imperatrice romana, getta ai suoi piedi gli strumenti militari. L’arciduca Leopoldo Guglielmo in forma Martis tiene sotto controllo gli Instrumenta bellicosa. Il re romano in forma Appollinis con gli strumenti musicali. Il mio piccolo figlio in forma Amoris, sotto forma di Cupido ma vestito, con la faretra e l’arco”.

Non è un cattivo programma. Da questo apprendiamo innanzitutto che la concezione della vita di questo sovrano si basava su cinque pilastri essenziali: ricchezza, fertilità, guerra, arte e amore. Se ci si pensa, in tutte queste cose c’è bisogno di fortuna. E la fortuna, come sappiamo, è una questione di poteri superiori.

Ora potreste chiedervi: come si conciliano tutte queste cianfrusaglie pagane con la religione? L’imperatore è un consacrato che indossa la mitra sotto la corona durante la sua incoronazione. Come può il detentore di una carica così sacra svolgere contemporaneamente il ruolo di Giove? La spiegazione è semplice: a quel tempo, il principe era considerato il signore naturale delle sue terre, nominato dalla grazia di Dio, il sovrano scelto per decreto eterno. Le messe, le cerimonie e le preghiere servivano a santificarlo. Aveva quindi un compito specifico che si estendeva anche alla sfera spirituale. Inoltre, doveva governare, difendere il Paese, emanare leggi e garantire il benessere dei sudditi. Aveva bisogno di ricchezza, fertilità, fortuna militare, arte e amore. Di conseguenza, egli dovette presentarsi al mondo come un uomo che non era solo uno strumento di Dio, ma anche un favorito della fortuna. Nelle vesti di Giove o Ercole, Apollo o Marte, il sovrano diventava un essere non solo scelto dal cielo, ma anche dotato dalla natura di poteri straordinari.

Come si può conciliare tutto questo con il cristianesimo? Attraverso una comprensione realmente barocca del rapporto tra cristianesimo e paganesimo: Cristo non solo è venuto al mondo, ma è anche entrato nell’Olimpo e gli antichi dèi si sono sottomessi a lui. Pertanto, il capo della cristianità, l’Imperatore, può tranquillamente rivendicare per sé il potere e i simboli del re degli dei, Giove. E non lo fa solo nei dipinti, lo fa soprattutto a teatro. Anche questa sera nel nostro teatro, come vedremo tra poco.

OLIMPO

Ora la pausa è finita, il sipario si alza di nuovo, e ridde di ballerini si riversano dal palco verso la platea. Sono divisi in due gruppi: quelli vestiti di verde dovrebbero essere i seguaci di Nettuno, mentre quelli vestiti di rosa di Venere. La dea stessa arriva su un grande carro circondato da amorini. E questo carro, incredibile, all’improvviso si alza dal palco verso il cielo, le nuvole si aprono e vediamo l’Olimpo, dove Giove siede sul trono con una lunga parrucca fluente.

Ora diventa chiaro cosa significhi tutta questa scena. Venere ottiene il permesso dal padre degli dèi di inviare Orfeo negli inferi per sottrarre la sua amata Euridice al signore del regno delle ombre, Plutone. Ma l’apparizione della dea dell’amore sull’Olimpo porta anche qualcos’altro. All’improvviso appare la maestosa Giunone, poi giunge Minerva armata, ed entrambe iniziano a discutere con Venere. Ci viene detto che l’oggetto di contesta è la famosa mela d’oro, che ognuna delle tre vorrebbe possedere per esser considerata la più bella di tutte. Giove si adira per la discussione e ordina alla sua aquila di portargli la mela. Il maestoso uccello si alza in volo (e tutto ciò si può ammirare letteralmente) e torna immediatamente dal suo padrone con la mela d’oro nel becco.

Ed ecco che Giove emette la sua sentenza: nessuna delle tre dee riceverà l’ambito simbolo, perché c’è una donna che è di gran lunga superiore a loro in virtù, l’unica degna di questo riconoscimento: l’Imperatrice. Giove ordina di aprire la camera del destino, si spalanca un tempio barocco di infinita profondità, sul cui altare riconosciamo l’immagine dell’imperatrice, circondata da una schiera di gloriosi discendenti. E ora anche le dee guerriere riconoscono il loro errore e, insieme a tutto l’Olimpo, rendono omaggio senza invidia alle virtù della sovrana terrena, che supera Giunone in magnificenza, Minerva in saggezza e Venere in bellezza. E Giove scuote i suoi capelli finti, si alza dal trono e grida al pubblico le parole dell’imperatore Augusto: plaudite, gentes.

IL REGNO DELLE OMBRE

Questo era l’omaggio, e serviva affinché tutti noi sapessimo cosa pensare degli antichi dei ed eroi. La scena è cambiata di nuovo, è calata la notte, ci troviamo nel regno delle tenebre [Orkus], negli inferi, sulle rive dell’Acheronte, le cui acque grigie separano l’oltretomba dal resto del mondo. Orfeo è giunto fin qui e, nella pallida oscurità, attende l’arrivo di una nave che si avvicina lentamente attraversando il fiume infernale. Si tratta di una chiatta con una vela nera e una sola, terrificante figura a bordo. Caronte, il traghettatore degli inferi, un gigante nero dall’aspetto minaccioso, sale sulla riva. Lui sa già cosa vuole Orfeo, e non è d’accordo.

Questo ingresso negli inferi, nell’aldilà, trova uno strano e oscuro parallelo nelle cerimonie imperiali della corte viennese. Si racconta che la scena seguente avesse luogo durante la sepoltura dei membri della famiglia imperiale nella cripta dei Cappuccini in epoca barocca. Dopo la benedizione in chiesa, la bara viene trasportata dai monaci nella cripta, la cui pesante porta di bronzo resta chiusa. Con un gesto possente il maestro di cerimonia bussa al cancello e poco dopo si ode una voce terribile provenire dall’interno: “Chi desidera entrare?” Al che il maestro di cerimonia dice qualcosa del tipo: “Sua Maestà, Leopoldo I, Imperatore del Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, Arciduca d’Austria, Re di Boemia, Re d’Ungheria, Conte d’Asburgo”, e così via, tutti titoli. Poi la voce dice: “Non lo conosco”. Allora il maestro di cerimonia bussa una seconda volta e di nuovo la voce chiede: “Chi desidera entrare?” La risposta è: “Sua Maestà Leopoldo I, nostro Imperatore e Signore”. E la voce: “Non lo conosco”. Il maestro di cerimonia bussa per la terza volta. Di nuovo una voce risuona dalla cripta: “Chi desidera entrare?” Il maestro di cerimonia a questo punto dice soltanto: “Leopoldo, un povero peccatore”. E la porta si apre immediatamente.

IL TEATRO DEL MONDO

Questa cerimonia, incastonata nell’austerità spagnola, è anche teatro, teatro con la morte? Sì, e lo comprendiamo solo quando riconosciamo l’idea che sta dietro a tutto questo: il dramma mondiale di cui siamo attori. Un’idea antica che incontriamo già nelle riflessioni dell’imperatore romano Marco Aurelio. Questi pensieri furono scritte 1800 anni fa nell’accampamento romano vicino a Vienna e terminano con le seguenti parole:

“Uomo, sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c’è di grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma la natura che ti ci aveva introdotto? A stabilire che il dramma è completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell’una né dell’altro. Quindi parti in modo amichevole, anche chi ti congeda è amichevole”.

Dalla Spagna barocca, quasi come naturale prosecuzione di questi antichi pensieri, risuonano fino a noi i versi del poeta Francisco Gomez de Quevedo:

Non dimenticar che vita è spettacolo
e tutto il mondo un grande palcoscenico
nel quale ogni attimo mutano le scene
ed ove noi tutti siamo gli attori.
Non dimenticar però che Dio ha creato
l’intero apparato scenico e che ha ordinato
tutto il complesso tema in atti.
I testi e la suddivisione dei ruoli,
la foro lunghezza e l’intensità
della tensione drammatica: tutto è
nelle mani d’un unico drammaturgo.

NOTTE E SOGNO

Orfeo è ora salito davanti al trono degli inferi e ha lasciato risuonare la sua voce davanti al signore del regno delle ombre, il grande Plutone. Sulla scena vediamo la porta più interna dell’inferno, che ha la forma della gola spalancata di un drago e, nelle profondità di queste rigide fauci, la maestosa figura di Plutone risplende nel buio chiarore dell’oro. È il dio degli inferi e il dio della ricchezza, tutto in una sola persona. Ascolta impassibile il commovente lamento di Orfeo. E ciò che nessuna ricchezza al mondo può fare, l’arte del cantore può farlo: il suo cuore si ammorbidisce, si lascia commuovere, libera Euridice.

A Orfeo è concesso di tornare in vita con lei, ma a una condizione: deve fidarsi delle parole di Plutone e non voltarsi a guardare coloro che lo seguono finché non ha raggiunto il mondo superiore. Perché Plutone è un re e, come ogni altro sovrano dell’epoca barocca, pretende che le sue parole siano credute ciecamente. Ecco perché un re non firma mai personalmente un trattato politico; lascia che lo facciano i suoi ministri. E lo fanno con tanta astuzia che nel giro di vent’anni due regni si assicurano reciprocamente la loro alleanza eterna per sette volte e nel frattempo si scontrano in guerra per sei volte. E mai un re, ma solo un ministro avrebbe potuto dire nel periodo barocco: “Quando guardo il mondo ora, come viviamo, penso che abbiamo tutti perso la testa e non siamo in alcun modo diversi dai pagani e dai turchi, tranne che in qualche carattere esteriore”.

Qui abbiamo tutto il possibile: l’oro che viene dagli inferi ed è del diavolo, ma che bisogna avere, anche se gli alchimisti lo producono artificialmente con l’aiuto della leggendaria pietra filosofale. E l’onore inviolabile dei principi, di cui nessuno può dubitare. Infine, la guerra che, qualche decennio prima dell’Alto Barocco, devastò una larga parte delle nostre terre, tanto che in alcune città era rimata in vita solo il quaranta per cento della popolazione. E i ministri che si incontravano alle conferenze tra le campagne militari omicide, si scambiavano i complimenti più squisiti e talvolta fino all’ultimo momento non sapevano contro chi avrebbero puntato i loro cannoni la primavera successiva.

Anche questo fa parte del periodo barocco: le cose non vanno mai come ci si immagina in origine; ci sono sempre sorprese e mutamenti in agguato da qualche parte, il cui significato si comprende molto più tardi, forse solo alla fine dell’opera. È come nella vita: la logica del destino non si manifesta immediatamente. Le vicissitudini che ci attanagliano non sono subito spiegabili; dobbiamo credere che abbiano un significato, e talvolta un significato molto diverso da quello che sospettiamo. Proprio come i sogni che ci giungono di notte e che nel Barocco hanno un significato profondo perché ci mostrano lo scorrere del tempo e la fragilità dei nostri possedimenti. Dall’Inghilterra barocca e dalla bocca di Shakespeare giungono a noi i versi della trasformazione onirica della vita:

E come la struttura
infondata di questa visione, così le torri
incappucciate di nuvole, i palazzi sfarzosi,
i templi solenni, lo stesso grande globo,
sì, e tutto ciò che esso contiene, si dissolveranno,
e, al pari di questo insostanziale spettacolo svanito,
non si lasceranno dietro neanche uno straccio
di nuvola. Noi siamo della stessa stoffa
di cui sono fatti i sogni, e la nostra piccola vita
è circondata da un sonno.

I SUDDITI

Fuori, in città, sta ormai calando la notte e i cittadini vengono rimandati a casa, perché le feste dei principi vengono celebrate meglio quando si sa che il resto dei sudditi dorme. Solo in paio di taverne appartate alcuni festaioli non smettono di bere. Uno di loro ne scrisse molto chiaramente il motivo nel 1718:

Tu, piacevole bicchiere,
Tu, vino meraviglioso,
Sii il mio unico ristoro.
Chiunque abbia qualcosa di più caro,
gli piace baciarlo,
perciò la mia bocca
raramente si allontana da te,
così che possa baciare spesso
il tuo cristallo,
perché sei la sua cosa più cara
fino alla morte.

Il vino del periodo barocco non era ovviamente peggiore di quello odierno, anzi era migliore. Nelle grandi cantine dei chiostri, monaci esperti si assicuravano che il ricordo delle nozze di Cana non svanisse nei cuori delle persone, perché dopotutto era di grande importanza che il primo miracolo di nostro Signore in questo mondo fosse la trasformazione dell’acqua in vino. E dove il vino è onorato e amato, il canto non è raro.

Possiamo quindi stare tranquilli: i cittadini sono in pace. Se non si sono ancora messi la cuffia da notte, allora siedono con del vino o ascoltano musica. Qualcuno di loro potrebbe addirittura lamentarsi furtivamente delle tasse elevate e della costosa pompa magna che i principi mettono in scena nelle loro corti e nei loro teatri. Ma non si sta organizzando una rivoluzione: i tempi sono ancora lontani. La gente è ancora convinta che il principe sia necessario per il corso degli eventi quanto il vescovo lo è per la salvezza delle anime. E ci si può facilmente tranquillizzare pensando che al di sopra di tutti i principi regna ancora l’Imperatore, il sole personificato di tutte le grazie temporali:

“Quando gli Stati della Bassa Austria resero omaggio all’imperatore Giuseppe I, lo fecero con le seguenti parole: La luce del Principe del Cielo si è cristallizzata nello splendore più alto e mai ammirato prima d’ora. Il mondo sta diventando troppo angusto per essere teatro di tali opere, mentre gli Stati più fedeli e obbedienti credono di aver raggiunto il culmine della felicità, tanto da prostrarsi ai piedi di Vostra Maestà. Quando il sole di una felicità vivente aleggia davanti ai nostri occhi, l’antica età dell’oro in confronto alla nostra non è che un’età del ferro”

IL SOVRANO

Tali formule presuppongono un enorme senso di distanza e la corte, che a quel tempo comprendeva duemila persone, faceva la sua parte per promuovere questo senso di sottomissione attraverso una cerimonia fantasmagorica. Ad esempio, l’imperatore cenava pubblicamente quattro volte l’anno, durante le quali gli venivano servite 48 portate e ogni pietanza doveva prima passare per le mani di 24 persone. A Vienna erano impiegate 400 persone per la manutenzione delle scuderie imperiali, che ospitavano fino a duemiladuecento cavalli. In un anno la cucina di corte spese 4.000 fiorini solo per il prezzemolo. Per la bevanda della buona notte dell’Imperatrice vedova Amalia erano necessarie ogni giorno dodici brocche di vino ungherese.

E non pensate che le cose sarebbero andate diversamente in Baviera. L’elettore Massimiliano Emanuele possedeva 1400 cavalli da caccia e, quando suo figlio si fidanzò con l’arciduchessa austriaca Amalia, regalò alla futura nuora un ritratto del suo sposo, tempestato di diamanti del valore di circa tre milioni di marchi odierni. Elaborò anche delle gesta galanti molto sofisticate. Ad esempio, alla famosa giostra delle donne di Fürstenried c’erano dei premi davvero notevoli, come un pezzo di burro e un servizio di posate dorate. Oppure un cesto di lattuga con nascosto all’interno con cura un orologio dorato, oppure un piatto di formaggi insieme a una borsa da lavoro in cui era custodita una tavoletta per scrivere in oro massiccio. Infine, una dozzina di piccioni, con una grande borsa dorata per la toilette.

I cittadini avevano dovuto pagare tutto questo e non avevano nemmeno visto nulla. Perciò ogni tanto bisognava dare loro l’opportunità di osservare, almeno da lontano, cosa facevano i signori e le signore con il denaro del Paese. Una delle più magnifiche dimostrazioni di questo tipo venne in mente all’elettore Carlo Alberto, figlio di Massimiliano Emanuele e futuro imperatore Carlo VII, quando escogitò il piano per incontrare sua suocera, l’Imperatrice vedova, nella magnifica Abbazia di Melk in Austria. È noto che l’Abbazia si trova sul Danubio e questo spinse il principe elettore a prendere la via dell’acqua. A Wasserburg am Inn venne costruita una flotta di 27 magnifiche navi, che però non furono sufficienti, poiché il principe elettore e la sua famiglia portarono con sé solo il seguito necessario, ovvero 216 persone. Così costruirono diverse navi personali, una nave per le signore, e poi ancora una per i ministri, una per i cavalieri, una per i confessori, una per la cucina di corte e una per la cucina di servizio, una per il forno, una per la cantina di corte e anche qualche altra di riserva.

Naturalmente il punto più alto dello sfarzo fu raggiunto dall’arredamento delle navi destinate all’Altissima Nobiltà: le stanze furono tappezzate con carta da parati damascata e broccata e arredate con i mobili più pregiati dell’Intendenza di Corte. Per i marinai era stata disegnata una speciale uniforme bianca e blu e naturalmente era stato portato dietro anche il teatro, poiché questa era la vera sorpresa per la suocera e per i monaci benedettini di Melk, insieme a dodici candelieri dorati fatti mettere dall’Elettore nella sala allestita per un’unica rappresentazione. Questa rappresentazione consisteva nell’Atalia di Jean Racine, a cui presero parte quattro dame e sei cavalieri, mentre l’Elettore e la sua famiglia provvidero alla musica: Carlo Alberto suonò il flauto, l’Elettrice assunse la parte di contralto, il Principe Elettore suonò il violino, la principessa Teresa il clavicembalo, la principessa Maria l’arpa e la principessa Maria Antonia cantava come soprano. E tutto questo ci riporta a teatro.

IL DUBBIO

Ricordiamo: Orfeo cantò in modo così straziante per Plutone, il signore degli inferi, che quest’ultimo gli restituì la sua Euridice, a condizione che a Orfeo non si girasse a guardarla durante il tragitto verso il mondo superiore. Era senza dubbio chiedere troppo, ma dopotutto Plutone, che è un re, può esigere la prova che la sua parola regale venga rispettata incondizionatamente per un favore così insolito. Anche Orfeo prese la cosa molto sul serio e, tra le furie esagitate e le ombre, salì imperterrito verso l’alto senza voltarsi indietro. Se solo il viaggio non fosse stato così lungo! E più lungo è il cammino, più fede e dubbio entrano in conflitto nel suo animo. Sarà al sicuro solo finché crederà nell’onestà di Plutone. Non appena gli sorgono dei dubbi, ha subito bisogno di certezze. E questo non è solo il conflitto personale di Orfeo: è il problema storico dell’era barocca.

La fede fornisce certezza, il dubbio richiede prove. Tutto il mondo barocco nelle nostre terre presuppone la fede. La credenza in un ordine immutabile delle cose che culmina in paradiso e rimane valido anche all’inferno. La natura dell’uomo è buona, ma le tentazioni del male sono necessarie affinché l’uomo riconosca la propria salvezza. La storia del mondo è un processo il cui risultato sarà visibile solo nell’Ultimo Giorno. Ma ogni singola persona soffre nel profondo dell’anima gli turbamenti che questo processo genera. La battaglia tra la luce e l’oscurità si combatte nell’arena della personalità e l’uomo può schierarsi dalla parte giusta solo se crede nel trionfo finale del bene. Ma il bene è sinonimo di ordine, così come il male è sinonimo di caos. E l’uomo ha due garanzie per il riconoscimento dell’ordine: il Vangelo e il barocco. In entrambi prevale l’idea del potere paterno, perché il Padre nei cieli e il padre della patria governano secondo lo stesso principio.

Se riflettiamo su questo, ciò che accade ora sulla scena non ci sembrerà più strano. Orfeo vede già la luce del giorno da lontano e la sua pazienza è finita. Il dubbio ha trionfato sulla fede, si sente tradito perché non avverte la presenza della sua Euridice, quindi si volta. Eccola lì, che lo segue umilmente, e lui si rende conto di averla persa per sempre.

LE LEGGI ETERNE

E ora il nostro palcoscenico è diviso in due metà. Da una parte l’opera di Monteverdi, conclusa nel 1605, prosegue, mentre dall’altra assistiamo alla conclusione dell’opera del Gluck e la differenza tra le due interpretazioni ci rende chiaro ciò che distingue il Barocco dalle epoche successive. Rivolgiamoci innanzitutto all’Orfeo di Gluck. Il cavaliere Gluck ritiene ingiusto questo punto della trama. Dopotutto, è umano che Orfeo soccomba alla tentazione. Può essere ritenuto responsabile di ciò? Può essere costretto a pagare per aver disobbedito a un ordine al quale non era capace di obbedire?

Rivolgendosi a Euridice, Orfeo segue una legge superiore, la legge dell’amore, quindi è perdonabile. E non solo: deve ricevere una ricompensa, perché l’amore fedele va sempre premiato, anche quando è sbagliato. Così Cupido irrompe sulla scena e interpreta l’intero evento come una prova ormai superata, perché l’amore ha trionfato su ogni legge. Orfeo riesce a trattenere Euridice nonostante abbia violato il comando di Plutone. Qui il sentimento trionfa sulla legge, l’uomo diventa la misura del mondo, la purezza del sentimento riceve la sua ricompensa, anche se un contratto deve essere infranto. È toccante, ma segna tanto la fine del Barocco quanto l’inizio della Rivoluzione francese.

Se facciamo un confronto con Monteverdi, la differenza è immediatamente percepibile. Anche nell’opera di Monteverdi c’è un lieto fine: Orfeo viene portato sull’Olimpo, diventa immortale, gli è concesso di sedere alla mensa degli dei e viene sottratto alle sofferenze terrene attraverso l’assunzione di nettare e ambrosia. Ma con questa elevazione gli dèi rendono onore alla sua arte, non al suo comportamento. Perché Euridice deve tornare nel regno degli abissi, dove Plutone torna a essere il suo legittimo proprietario. A Orfeo è concesso di dimenticare l’amata, ma non di tenerla con sé.

Siamo ormai giunti al momento decisivo della nostra opera. E possiamo osservare che nel periodo barocco il mondo deve restare in ordine, anche se ricoperto con le vesti di antiche leggende. Al centro degli eventi non è l’individuo, ma l’universo, che si muove secondo leggi eterne, la cui influenza l’individuo percepisce nel suo destino, nelle sue credenze e nei suoi sentimenti. Il barocco anela al tutto, alla totalità. La vita è troppo grande per essere facilmente compresa. Ma è possibile percepirne il significato se si crede che la vita abbia un senso. È come nella musica. Comincia con un tema, lo amplia, lo varia, attraversa dissonanze e fallacie e assume il suo significato solo nell’accordo finale, perché possiamo percepirne la piena forma solo quando è già svanita.

TEMA E VARIAZIONE

Adesso è il momento di una pausa. Ma non preoccupatevi, ci sono vari espedienti a intrattenerci. L’orchestra inizia a suonare una piacevole musica d’intermezzo e, affinché anche i nostri occhi possano godere, alcune graziose ballerine salgono sulla platea per introdurci ai piaceri della vita agreste, che a quel tempo era appena stata scoperta. E ora appaiono tre figure, che rappresentano un mondo nuovo: un negro [Neger] con un fantasioso copricapo, una ciotola di frutta dorata tra le mani, poi un turco in abiti rosso fuoco, che libera tre schiavi bianchi, e infine un cinese, in un abito di seta di un blu profondo, con il libro della saggezza e una bacchetta magica in mano.

Cosa significano queste tre figure? Esse simboleggiano la scoperta del buon selvaggio, del barbaro virtuoso e del saggio dell’Estremo Oriente. E ciò a sua volta significa che l’umanità potrebbe essere liberata da ogni costrizione e miseria se il mondo intero si convincesse che le persone non hanno bisogno di regole per fare il bene, essendo naturalmente spinte a farlo, e che non ci sarebbero più difficoltà nel dialogare se tutti vivessero in campagna e parlassero francese.

Dopotutto, è un progresso aver concordato di scatenare guerre solo nei periodi favorevoli e di interromperle in quelli sfavorevoli. È un progresso anche sparare a morte al nemico sul campo di battaglia, ma per il resto ricoprirlo di complimenti. Infine, è un passo avanti il ​​fatto che non siamo più costretti a credere nei miracoli, perché ora sappiamo che gli scienziati hanno scoperto l’elettricità, la quale ci ha permesso di comprendere il mondo. Un po’ di ateismo, un po’ di frivolezza, un po’ di scherno, un po’ di arroganza: che deliziosa combinazione al posto di quell’eterno e noioso barocco con la sua pompa opprimente.

Sì, queste idee possono risultare molto accattivanti, perfino convincenti. Se ci sia un prezzo da pagare o meno è un’altra questione. In Francia, alla fine del XVIII secolo, costarono un gran numero di teste. È strano che qui, nel bel mezzo del consolidato ordine mondiale del Barocco, tali cose siano addirittura permesse. Il nemico secolare del Cristianesimo, il Turco, viene trasformato in un brav’uomo. Cosa direbbe il Principe Eugenio a riguardo? E il selvaggio della savana diventa un criterio della moralità: cosa direbbe l’imperatrice Maria Teresa? E infine c’è il cinese che ha avuto il monopolio della saggezza per tremila anni senza essere cristiano: e cosa dovrebbe dire il Papa a riguardo?

In Francia è finita male, ma qui ci siamo detti che è tutta una questione di equilibrio. Finché non dimentichiamo che la vita si estende dal cielo, attraverso il mondo, fino all’inferno, possiamo permetterci di trovare la natura bella, le persone buone e l’esistenza gioiosa. Finché permettiamo ai principi di governare, siano essi sovrani spirituali o secolari, possiamo permetterci di considerare l’elettricità come qualcosa di sensazionale, ma non come qualcosa di rivoluzionario. Finché consideriamo la realtà come uno spettacolo e sperimentiamo una verità superiore a teatro, possiamo concedere alle persone il diritto di considerare deplorevole il loro destino. Perché la loro immaginazione gli darà l’opportunità di bilanciare le ingiustizie di questo mondo con l’arte e la fede, e la morte gli darà la sicurezza che nell’altro mondo sarà uguale a ogni principe.

L’equilibrio tra l’ordine dinamico del mondo e la pretesa di felicità dell’individuo, stabilito e mantenuto per un momento della storia, è ciò che rende il Barocco uno stile di vita immortale. Ed è per questo che il sipario sul nostro palcoscenico si alza ora per l’ultima volta, a celebrare il trionfo di questo atto, con immagini e simboli. I cieli si aprono di nuovo. Il carro del sole scivola sopra l’orizzonte e si ferma allo zenit. Il dio del sole Apollo lo offre come trono alla dea della vittoria, che dal centro del sole radioso canta l’ultima aria della nostra opera: Victoria, victoria.

E ora tutto è in movimento: Plutone e le sue Furie emergono dagli inferi, Orfeo suona la sua lira, Venere e gli dei dell’Olimpo appaiono su nuvole trasportate da angeli e amorini, irrompono gli elementi, il fuoco su un carro trainato da salamandre, il mare agitato dai delfini e dai tritoni, l’aria nella forma alata dei quattro venti, e sotto l’antica, gigantesca Madre Terra, la Via Lattea con i suoi mille soli e infine l’unica, incomprensibile luce che muove ogni vita e conferma il divino significato del mondo. Ci lasciamo trasportare dalle onde della musica e applaudiamo quando cala il sipario.

E sulla via del ritorno, verso la realtà del presente, non più accerchiata dai sogni, ci accompagna ancora, come un’eco lontana del barocco alpino, il richiamo del guardiano notturno, che si conclude con le parole senza tempo: …e Lode a Dio Signore e alla nostra Signora.

Fonte: Reinhard Raffalt, Barock – Beschreibung eines Lebensstils (s.i.d.)


AVVERTENZA (compare in ogni pagina, non allarmatevi): dietro lo pseudonimo Mister Totalitarismo non si nasconde nessun personaggio particolare, dunque accontentatevi di giudicarmi solo per ciò che scrivo. Per visualizzare i commenti, cliccare "Lascia un commento" in fondo all'articolo. Il sito contiene link di affiliazione dai quali traggo una quota dei ricavi. Se volete fare una donazione: paypal.me/apocalisse. Per contatti bravomisterthot@gmail.com.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.