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Il Campo dei Tonti. Visioni e deliri sull’immigrazione

È difficile non lasciarsi suggestionare dalla marea di immigrati che in questi anni (mesi, giorni, ore) stanno approdando sulle coste italiane: si corre il rischio di scrivere cose delle quali ci si potrebbe pentire, non tanto a causa del fatidico senno di poi, quanto per le conseguenze penali che potrebbero riservare alcune dichiarazioni avventate. Chi tuttavia ha letto Il campo dei santi di Jean Raspail, non riuscirà a evitare la paranoia e dissuadersi dal pensare che nella migliore delle ipotesi tutto ciò rappresenti un evento già previsto (mentre nella peggiore sia il segno di una imminente guerra civile).

Prima di affrontare la questione, concedeteci una piccola divagazione letteraria a proposito del romanzo di Raspail. Nonostante una recente ristampa francese abbia contributo indirettamente all’ascesa di Marine Le Pen, questa opera non si può semplicemente classificare come “propaganda politica”; al contrario meriterebbe di occupare una nicchia, seppur minuscola, nella storia della letteratura contemporanea.

Se ciò non è avvenuto è perché questo spazio ancora non esiste: per quel che riguarda il caso italiano, è pacifico che ogni manifestazione culturale che puzzi di destra venga relegata nell’ambito del malapartismo. Raspail sfugge a certi schematismi ed è forse per questo che i critici hanno preferito ignorarlo piuttosto che screditarlo. Ovviamente c’è del Malaparte anche in Raspail (però lui cita… Buzzati!): ciò nonostante il tono dissacratorio mitiga qualsiasi tentativo di promozione dell’Idea o dell’Io. È un registro talmente esagerato che l’autore della post-fazione per le Edizioni di Ar (F. Sandrelli, 1998) si sente obbligato a biasimarlo: «Lo scrittore rischia di deformare in senso caricaturale il testo e di allentarne il ritmo narrativo».

In termini di stile, Il campo dei santi si colloca idealmente tra i Promessi Sposi e un kolossal americano: la descrizione dei “fratelli del Gange” che guidati dal Coprofago assaltano un battello e travolgono la Francia meridionale, così come la guerra civile che devasta la Costa Azzurra prima ancora dell’arrivo dei disperati, rimandano con qualche variazione da zombie exploitation alla Milano manzoniana in preda alla peste.

Nel romanzo c’è persino un “lieto fine” (sempre manzoniano): l’Occidente si dissolve tragicamente, ma i primi ad essere fatti fuori con inaudita ferocia sono proprio i terzomondisti. Jean Raspail ha un pensiero per tutti: il giornalista progressista accorso ad accogliere la frotta viene strangolato dopo aver assistito inerme allo stupro di gruppo della sua compagna; le femministe schiavizzate in postriboli creati appositamente per la “iniziazione dalla donna bianca”; i missionari laici sgozzati e buttati giù dai battelli; la borghesia benpensante della Provenza costretta a cedere il proprio appartamento ai vicini magrebini dalla prole esorbitante.

Non è solo una vendetta su carta, poiché lo scrittore imbastisce anche una spiegazione (questa, sì, politica) del perché la violenza dovrà necessariamente scagliarsi prima di tutto verso chi ha favorito la “invasione”:

«La volontà del Terzo Mondo non deve nulla a nessuno; essa non accetta di sminuire il significato radicale della propria vittoria condividendola con dei transfughi. Ringraziarli, o semplicemente riconoscerne il ruolo, equivarrebbe a perpetuare una forma di soggezione».

Partendo da queste premesse, Raspail fornisce anche l’identikit del miles nihil che difenderà la “causa bianca” nella fantasmagorica grande guerra razziale:

«Chi ama davvero le tradizioni non le prende troppo sul serio e va in guerra divertendosi un mondo; sa infatti che sta per morire per qualcosa di evanescente, generato dai suoi fantasmi, una via di mezzo tra l’umorismo e la farneticazione. Forse si tratta un sentimento più sottile: quel fantasma cela il pudore di un uomo ben nato che per non apparire così ridicolo da battersi per un’idea 1’ammanta di note strazianti, di parole vuote, di orpelli inutili e si concede il piacere supremo di un sacrificio quasi fosse uno scherzo di carnevale. Questo, la Sinistra non l’ha mai capito: perciò riesce a secernere solo un rancoroso sarcasmo. Quando sputa sulla bandiera, piscia sulla fiamma del Milite Ignoto, sogghigna al passaggio di vecchi reduci idioti col basco in testa e grida “Woman’s lib!” quando due sposi escono da una chiesa, per citare soltanto gli esempi più banali, lo fa in modo tremendamente serio, “da coglione”, direbbe, se sapesse giudicarsi. La vera Destra non è seriosa. Per questo la Sinistra la odia, così come un boia odierebbe un condannato al patibolo che ridesse e scherzasse in faccia alla morte. La Sinistra è un livido incendio che divora e consuma. Nonostante le apparenze, le sue feste sono tetre quanto una sfilata di marionette a Norimberga o a Pechino. La Destra è una fiamma inquieta che guizza allegramente, un fuoco fatuo nella cupa foresta carbonizzata».

Avvicinandoci all’attualità, il romanzo contiene anche la sapida descrizione di un Papa sudamericano seguace della teologia della liberazione e del pauperismo eretico, al quale Raspail appioppa il nome di Benedetto XVI. Così come le ondate migratorie reali non hanno nulla a che fare con quelle del romanzo, allo stesso modo la caricatura di un pontefice catto-progressista non è un pronostico sulla figura di Papa Bergoglio; tuttavia, come ho detto prima, essendo Il campo dei santi respinto come libello di propaganda, nella mente dei suoi lettori inevitabilmente qualche analogia andrà ad affacciarsi, per il semplice motivo che è da quell’area politica che provengono (De te fabula narratur).

Questo Benedetto XVI “dei poveri” chiaramente nasce dalla polemica contro il conformismo del clero francese dell’epoca. Come è scritto ancora nella postfazione, «il brasiliano assurto al soglio pontificio col nome di Benedetto XVI ci viene descritto come un asceta ossessionato da un ideale di povertà assoluta, […] antitesi perfetta di un Papa rinascimentale». Del resto è lo stesso Raspail a definirsi, per bocca di uno dei personaggi, cattolico non cristiano («una nuance essenziale, a cui tengo»), e di conseguenza la sua critica al cattolicesimo progressista non può che rivelare il timore (forse sincero) di una strumentalizzare della religione tradizionale da parte della retorica pauperista.

Da qui il ritratto sgraziato (in senso etimologico) da parte di uno scrittore che guarda alla Chiesa come una istituzione umana che irrimediabilmente decade al pari di tutte le altre. Il suo Benedetto XVI è lo zimbello del mondo intero: mette all’asta tiara e Cadillac per i poveri, ma i cattolici «gretti e superstiziosi» provenienti dalle «parrocchie più umili e arretrate della Corsica, della Bretagna, dell’Irlanda, della Luisiana, della Galizia o della Calabria» continuano a mandargli donazioni affinché si ricompri tutto ciò che ha donato; profferisce appelli struggenti diretti ai popoli europei nei quali li supplica di «aprire le loro anime e i loro cuori e di offrire tutti i loro beni materiali agli sventurati che Dio ha condotto a bussare alle nostre porte»; alla fine muore in circostanze misteriose, probabilmente in un incidente a bordo del suo bianco aereo dopo che uno di «quei viaggi improvvisi e impulsivi […] tipici del suo carattere» lo aveva portato a planare verso i “fratelli del Gange” per benedire chi combatteva contro i bianchi così come aveva fatto in Rhodesia e in Sud Africa.

Fare de Il campo dei santi un testo profetico è quindi una tentazione sempre presente anche per chi ha letto qualche altro libro (magari non quelli che nel Don Chisciotte finiscono fuori dalla finestra). Partendo dall’ultimo punto, vorrei specificare che non si tratta di un pretesto per polemizzare con quel cattolicesimo che considera l’immigrazione una rigenerazione palingenetica e ne parla in tono messianico, abbandonando una residua forma di realismo quale potrebbe essere la famigerata “cooperazione internazionale”. Da questo punto di vista non vogliamo seguire Raspail: è troppo rischioso, troppo umano (come intendeva l’aggettivo Fantozzi, non Nietzsche). Più decoroso (anche se mediocre) rimanere sul piano della polemicuccia mondana e secolare, lasciando da parte le questioni ultraterrene (senza dimenticare mai Mt 25, 41-45).

Anche in questo caso è tuttavia necessario partire da ipotesi che vadano oltre la razionalità e scomodare discipline quali la psichiatria o la poesia, poiché quando un Paese decide di investire milioni di euro per favorire l’approdo di decine di migliaia di stranieri sul proprio territorio, ciò significa che più che dal mero interesse, esso si è lasciato ispirare dalla follia o dal sentimentalismo. Il lato più irritante della questione è che, come al solito, l’Italia non sarà in grado di trarre alcun vantaggio dai suoi sacrifici e le conseguenze si ripercuoteranno sulle fasce più deboli della popolazione.

È in particolare quella cosa che chiamiamo “sinistra” a sviluppare in questi casi una ideologia abominevole che dietro la chiacchiera buonista nasconde la teorizzazione implicita di forme nuove di darwinismo sociale, dove la competizione intraspecifica viene idealizzata a motore della storia. Per certi versi, sarebbe stato meglio per essa fermarsi al terzomondismo romantico e farne la base dottrinale di una società multiculturale non orientata esclusivamente al bellum omnium contra omnes.

Forse sarebbe rimasto un briciolo di criterio per riconoscere, tra le altre cose, che l’afflusso inarrestabile di immigrati danneggia in primo luogo gli stranieri già presenti sul territorio italiano, i quali potrebbero finalmente consolidare la propria posizione invece di dover subire in perpetuo il gioco al ribasso su diritti e salari; oppure, ancora, che un incessante e dirompente spostamento di uomini serve principalmente come propaganda imperialistica europea, poiché tra le altre cose consente il consolidamento del mito dell’Unione Europa quale “Paese di Cuccagna” dove ogni rivendicazione sociale è soffocata in nome del c’è chi sta peggio.

Qualcuno che a sinistra evidenzia queste contraddizioni esiste, tuttavia le critiche restano confinate nell’ambito teorico e non trovano mai applicazione concreta (a meno di non voler considerare opportuno l’atteggiamento sprezzante di Romano Prodi e Giorgio Napolitano verso le vittime della tragedia della Katër i Radës avvenuta nel 1997, quando erano rispettivamente Presidente del Consiglio e Ministro degli Interni).

Susan George (presidentessa onoraria di ATTAC) per esempio, qualche anno fa sosteneva che «non si raggiungerà di certo il riconoscimento del diritto al lavoro e a un livello di vita decente lasciando distruggere le conquiste dei lavoratori nei Paesi più avanzati per fornire posti di lavoro agli immigrati del Sud» (Fermiamo il WTO, Feltrinelli, 2002, p. 53).

E Marino Badiale e Massimo Bontempelli (ne La sinistra rivelata, Massari, Bolsena, 2007, pp. 58-66):

«La possibilità che l’immigrazione sia per un paese una sorgente di arricchimento culturale è, appunto, una possibilità, che in alcune circostanze storiche si è realizzata mentre in altre circostanze si è verificato l’opposto, cioè un impoverimento culturale e morale. […] Se non si trovassero neppure gli immigrati per i lavori generalmente rifiutati, tali lavori dovrebbero per forza venire resi meno umilianti, meno nocivi, meno sottopagati […] [Se] l’offerta di un lavoro senza diritti fosse resa impossibile, diminuirebbe certamente […] il flusso migratorio verso il nostro Paese».

Visioni lucide e realistiche che contrastano con il solidarismo peloso (quello che negli anni ruggenti sarebbe stato classificato come “sentimentalismo piccolo-borghese”) di chi auspica la proliferazione di ghetti dorati sullo stile delle società anglosassoni (senza possederne né le risorse né le ambizioni), col corredo di geremiadi sull’urgenza di “nuova linfa” da immettere nel corpo sociale italiano.

È una casta strana, quella di cui stiamo parlando: qualche decennio fa i suoi appartenenti insorgevano contro l’esplosione demografica e lo “sviluppismo”, indicando come soluzioni obbligate il controllo delle nascite e la decrescita universale; oggi rifilano ramanzine quotidiane sul fatto che gli italiani non fanno più figli e non hanno più voglia di lavorare. Ovviamente è un discorso che vale solo per il popolaccio, che secondo questa utopia malata dovrebbe trasformarsi in una enorme massa di straccioni in lotta per l’ultimo posto di lavoro governata da una élite che pontifica sui benefici dell’immigrazione.

Dopo aver insistito sulla sinistra, è giusto rivolgere una critica anche alla destra, per non esser mai riuscita a elaborare un modello alternativo al di là del classico Exterminate all the brutes. Ripartiamo ancora da Jean Raspail: se non fosse un artista, dovremmo denunciare la sua impostazione ideologica non solo come povera di contenuti e inconcludente, ma anche pericolosamente vicina a certe suggestioni nichilistiche d’oltreoceano. Il tema della “grande guerra razziale” fa parte dell’immaginario della cultura americana in diverse sue espressioni, che comprendono sia il libercolo di qualche militante della Fratellanza Ariana che le brillanti provocazioni degli intellettuali liberal.

Nel primo caso ci sono caratteristiche, tra le quali spicca la predilezione per la violenza fine a se stessa, che fanno dell’estrema destra americana un mondo a parte: se volessimo cercare un padrino politico per il neonazismo americano, più che scomodare fedeli interpreti del pensiero di Gobineau quali il giornalista Charles Morris (1833-1922) o l’ideologo della Racial Holy War Ben Klassen (1918-1993), dovremmo pensare a Charles Manson. Costui è l’anello di congiunzione tra diversi “estremismi” politici e filosofici. I legami tra questo killer “iniziatico” e Jerzy Kosinski (1933-1991), scrittore polacco divenuto celebre negli Stati Uniti grazie al bestseller L’uccello dipinto (1965), non sono stati ancora del tutto chiariti: egli stesso raccontò che la sera del massacro nella villa dei Polanski avrebbe dovuto esser presente come invitato, ma non poté andarci perché all’aeroporto JFK di New York smarrirono i suoi bagagli.

In uno dei suoi racconti Kosinski si immagina nei panni di un nero del ghetto assetato di vendetta:

«Avrei visitato i ricchi e gli agiati e gli ignari, e il loro ultimo grido sarebbe stato soffocato dalle tende ricamate, dai vecchi arazzi e dagli inestimabili tappeti. Sui loro cadaveri, schiacciati da statue infrante, avrebbero affisso lo sguardo gli sfregiati ritratti di famiglia» (Steps, 1968, tr. it Passi, Mondadori, Milano, 1971, p. 150).

È noto che gli omicidi di Manson avrebbero dovuto propiziare una guerra razziale attraverso la quale una massa enorme di neri, una volta “sfogata” con lo sterminio dei bianchi americani, sarebbe stata schiavizzata da Manson e la sua “famiglia”. Questo è lo scenario apocalittico in cui estrema destra ed estrema sinistra boicottano congiuntamente ogni dibattito razionale su immigrazione e integrazione negli Stati Uniti.

Sulla stessa lunghezza d’onda un altro autore della galassia contestataria, Norman Mailer, nel saggio The White Negro (1959), mai tradotto in Italia, porta a modello il caso di due giovani afroamericani che avevano picchiato a morte il proprietario di una drogheria, commentando così la tragedia:

«Non si uccide solo un uomo debole, di cinquant’anni, ma un’istituzione, si viola la proprietà privata, ci si pone in un rapporto nuovo con la polizia, si introduce nella propria vita un elemento di pericolo. […] La violenza, quando è esteriorizzata, espressa, è in se stessa creativa».

Il problema razziale americano ci interessa relativamente; notiamo solo di sfuggita che questa ideologia di riferimento danneggia entrambi i contendenti: una destra che si definisce “suprematista” ma ha come modello piccole società tribali nelle quali auto-segregarsi; una sinistra che fa del negro una personificazione dell’animalità, dell’irrazionalità e di tutte le proprie fantasie represse, interpretando qualsiasi tipo di pace civile come imborghesimento.

Nonostante il determinismo biologico non sia una chiave interpretativa efficace delle vicende umane (tanto è vero che non esistono esempi storici di “guerra razziale”, così come è intesa dai suoi sostenitori, nel Vecchio Continente), il modello culturale americano sembra sia l’unico in grado di imporsi su una certa destra italiana ormai priva di punti di riferimento.

Come questo determinismo razziale possa ispirare un nuovo jus publicum europaeum, non è dato sapere; ciò che è chiaro è la pericolosità dell’idea di una “crociata ariana”, così affine alle chimere pseudo-apocalittiche dello spirito americano, così dipendente da quella tirannia dell’immanenza che conduce direttamente ai sacrifici umani.

Tuttavia il lato positivo è che non esiste attualmente alcun partito politico deciso ad abbracciare tali fantasticherie: si potrebbe dire che, mentre la sinistra predica bene ma razzola male, al contrario la destra predica male ma razzola bene. L’interpretazione pragmatica e prosaica di concetti ormai avvelenati dal lirismo quali “accoglienza” o “integrazione” da parte delle forze conservatrici è stata tutto sommato un bene per la nostra società, poiché ha impedito la disgregazione totale in nome di un terzomondismo patrizio e di un arianesimo plebeo. Tuttavia sembra che queste considerazioni appartengano già al passato, poiché l’irresponsabilità con cui viene gestito il fenomeno immigratorio sta rapidamente alimentando una sottocultura per certi versi inedita, della quale non è ancora possibile quantificare le ricadute sulla convivenza civile.

La classe sociale di cui parlavamo condivide gli stessi timori in tutte le sue propaggini, replicando nella pratica il modello americano con decenni di ritardo e in versione più “borghese” (aggettivo temerario, ma è difficile trovarne altri). Se il sottoproletario statunitense accettava un immaginario comune da “grande guerra razziale” per sciogliere le tensioni sociali (da notare che sia in un campo che nell’altro i bianchi si pensavano come perdenti: a “destra” perché finalmente avrebbero ottenuto una auto-segregazione in piccole comunità come la white utopia comanda; a “sinistra” perché la vittoria negra avrebbe comportato la fine del concetto di “occidente” inteso come moralismo repressivo e prevaricazione colonialistica), in Italia sono le componenti borghesi a carezzare un immaginario comune: la vita sociale è fatta di “linfa”, dunque i bianchi stanno perdendo posizioni e c’è necessità di sangue nuovo, ma se la sinistra altolocata plaude a questa sostituzione (basta che sia compiuta con metodi violenti ed entusiasmanti, e non con la squallida assimilazione tipica dei filippini) la destra “stracciona” (in senso metaforico) invece la teme perché si autorappresenta come l’anello debole di un Occidente rude e spartano che va dai magnati giapponesi ai marines di Full Metal Jacket.

A un livello più basso si sviluppa invece la nuova sottocultura di cui parlavamo, quella di una destra che crede nella possibilità di fare dell’immissione sregolata di “allogeni” nel corpo di una nazione morente un catalizzatore controrivoluzionario. In particolare vengono tenuti in considerazione i seguenti elementi: una mentalità “esotica” che mal si concilia con le varie forme di progressismo avanzate in Europa; il rispetto delle gerarchie sociale stabilite nelle società da cui gli immigrati provengono; le modalità in cui la sola presenza degli allogeni influenza i comportamenti degli indigeni in senso decisamente più conservatore.

Michel Houellebecq è stato uno dei primi a comprendere (e persino “interpretare”) il cambio di paradigma (del resto uno scrittore di successo può essere talvolta un ottimo rilevatore degli umori sociali): se ne La carta e il territorio (2010) immaginava una Francia deindustrializzata e “natalista” che non ha più bisogno di immigrati, ormai diretti verso altri lidi (Arabia Saudita e Cina), in Sottomissione (2015) la Francia del futuro diventa direttamente una repubblica islamica sostenuta da un ampio consenso popolare.

Pur essendo considerato, al pari de Il campo dei santi, come libello propagandistico per il Front National, in realtà Sottomissione è una pietra tombale per ogni possibile revanche: secondo lo scrittore, la “resistenza” lepeniana sarà l’ultima espressione di un identitarismo senza più forza né speranza, incapace competere seriamente con una ideologia consolatoria quale è l’islam politico, che libera l’uomo occidentale dai suoi complessi e in cambio pretende solo la sottomissione (appunto) della donna all’uomo e dell’uomo a Dio (nel libro c’è anche una interessante figura di guénoniano che da militante di estrema destra diventa uomo di fiducia del nuovo regime).

Houellebecq sembra avallare la teoria degli “opposti estremismi”: anche se viene utilizzata come espediente letterario per comprimere narrativamente il passaggio dalla democrazia alla teocrazia, è su questo punto che il romanzo esprime il suo senso politico. Egli lascia intendere che in un conflitto mimetico tra forze conservatrici, il capro espiatorio non potrà che essere il Front National. È una dinamica che emerge più volte nel corso della vicenda: per esempio, quando i partiti moderati per uscire dalla crisi rinnovano il patto repubblicano in senso sacrificale, ovvero offrendo l’identità francese sull’altare della stabilità sociale.

La distopia di Houellebecq risulta credibile perché l’artista interpreta la fede in rapporto alla struttura sociale ed economica della società: non è propriamente una forma di marxismo, ma solo una visione cinica e disincantata della realtà. Se i francesi di Sottomissione scelgono l’islam è per dare un senso allo smantellamento dello stato sociale e alla liquidazione della democrazia. Non è questo, alla fine, un compromesso accettabile, anche per la “Destra” che si pensa con la maiuscola?

Ovviamente le opinioni potrebbero essere influenzate dalla fascia di reddito di chi le formula ma, in conclusione, se il Campo dei Santi è quella «little patch of land | that hath in it no profit but the name», il Campo dei Tonti è invece il luogo in cui l’immigrazione (“selvaggia” quanto si vuole, ma pur sempre “controllata”) conviene più o meno a tutti: alla cosiddetta destra, perché, oltre a tutto quanto è stato appena detto (ma sono considerazioni che valgono sulla lunga distanza), potrà avere un capro espiatorio sempre spendibile per ogni campagna elettorale; alla cosiddetta sinistra, perché così i suoi rappresentanti potranno credere di far del bene semplicemente non facendo nulla e scaricando le responsabilità sul popolaccio; ai centristi, perché potranno illudersi che il cattolicesimo consista nell’unico sacramento della “accoglienza” che invalida tutti gli altri; ai patrizi, perché potranno godersi il sublime (in senso kantiano) spettacolo di una epocale guerra tra poveri; ai plebei, perché con la scusa che gli immigrati sono brutti sporchi e cattivi potranno assecondare le tendenze peggiori della propria classe. “Siamo tutti sulla stessa barca”: il problema è che c’è ancora posto…

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