Il Cappellano d’Occidente. Vita morte e miracoli di Gianni Baget Bozzo

Questo breve scritto è dedicato ad alcuni punti controversi del pensiero di Gianni Baget Bozzo (1925–2009), carismatica figura di prelato, filosofo, politico e opinionista.

Iniziamo da L’intreccio. Cattolici e comunisti 1945-2004 (Mondadori, Milano, 2004), nel quale don Gianni evoca una tesi diffusa particolarmente negli ambienti di destra durante la guerra fredda – il comunismo come eresia cristiana:

«Il comunismo è nato come un’eresia cristiana e, anche attraverso la versione hegeliana-marxiana, ha mantenuto intatte le sue radici teologiche. La sua volontà di sopprimere la Chiesa cattolica è stata eguale alla sua volontà di imitarla e di influenzarla. […] Il fatto stesso che il comunismo, diversamente dal nazismo, non sia finito in tragedia è forse legato anche alle radici cristiane che nel comunismo sono rimaste» (p. 9).

Lo stesso argomento, allargato alla modernità intera, compare ne L’Anticristo (Mondadori, Milano, 2001):

«Il moderno è ancora una teoria sui rapporti tra Dio e l’uomo come risultano dalla cristologia. Si tratta di affermare che la mente umana è Dio: da Baruch Spinoza a Ludwig Feuerbach il passaggio è molto chiaro. Si tratta ancora della divinoumanità cristiana, ma attribuendo all’umanità la divinità» (p. 118).

Questa compenetrazione di teologia e filosofia porta spesso don Gianni a esaltarsi della sua stessa retorica, sfiorando una sorta di pseudo-messianesimo che in vita gli valse il titolo di “Cappellano d’Occidente”:

«Il Dio dell’Occidente deperisce nella coscienza dell’Occidente. Finché visse con il comunismo e il suo emulo subalterno, il nazismo (il maggior tentativo del satanismo politico), il Dio dell’Occidente non deperì. […] Il satanismo politico era un testimone di Dio. La Chiesa è rifiorita nel XX secolo attorno al satanismo politico comunista. […] Il Dio dell’Occidente è svanito, Satana no; […] [egli] dilaga in Occidente sotto la forma dell’angoscia e della disperazione. […] La grande potenza materiale egemonica e imperiale, gli Stati Uniti, non è in grado di sopportare ciò che l’umanità ha sempre sopportato: la morte in battaglia. […] Se il Dio dell’Occidente è morto, che senso ha morire per lui? […] L’Occidente non ha più motivi per morire: ciò significa che non ha più ragioni per vivere. […] Ora tutto ciò è divenuto male: Crociate, Inquisizione, scoperta dell’America sono solo male, sono contro il principio di compassione. La storia dell’Occidente è una vergogna, la storia della Chiesa cattolica è una vergogna: lo dice il Papa. […] [Sono state] distrutte le nazioni europee […]; forse la Russia è ancora un poco la Russia, visto che i suoi soldati sono disposti a morire in Cecenia. […] I vecchi popoli non occidentalizzati hanno ancora un Dio per cui vale la pena morire: lo hanno gli islamici. E gli uomini che sanno sfidare la morte, i popoli che sanno sfidare la morte hanno ancora in qualche modo una religione per cui morire» (L’Anticristo, pp. 101-103).

«Il Terzo Reich era più bello di Weimar, il fascismo più bello dell’Italia umbertina. Il comunismo di Stalin ebbe una capacità di fascino per la bellezza, per uno splendore insito nell’opera che portava innanzi, il cambiamento della natura umana. Se milioni e milioni di uomini si sono sacrificati, lo hanno fatto non per la verità ma per la bellezza. […] Il XX secolo è stato il secolo dell’eroismo gratuito, del sacrificio, un secolo escatologico» (L’Anticristo, p. 115).

Per comprendere appieno il senso di queste parole, è necessario tornare indietro di decenni, precisamente ai tempi degli ideologi della guerra fredda, un’era in cui molti polemisti di destra abbracciarono il cristianesimo in forma di “falsa coscienza”, proprio per provocazione nei confronti del marxismo. Un esempio classico è quello di Jean Cau e del suo “manifesto” Le scuderie d’Occidente (Volpe, Roma, 1973); alcuni passaggi, confrontati con L’Anticristo, possono risultare illuminanti:

«L’Occidente in decadenza si è messo a scrivere la storia delle sue ritirate e delle sue umiliazioni per conto di coloro che gliele infliggono. […] Esausti, abbruttiti, drogati, rinnegando il nostro passato e le nostre virtù, felici di vedere inaridite le sorgenti di quell’onda di certezze che ci lanciò alla conquista del mondo, […] accettiamo tutto: l’ingiuria, il disprezzo, lo sputo» (Le scuderie d’Occidente, p. 98).

«La felicità non ha che un nome vero, antico e moderno: la fede. […] Al tempo della guerra di Vandea i contadini ribelli si battevano con valore senza pari, al grido “Per il mio Dio e per il mio Re!”. […] Sull’altra sponda, innumerevoli furono quelli che caddero cantando e gridando “Viva la Repubblica!” […]. Dalle due parti c’era, incrollabile, una fede. In Dio, qui. Nell’Uomo, là. Ma c’era, disinteressata e follemente pura, la fede! E, per lei, la felicità di combattere, di vivere o morire. […] Perché viviamo? interrogano i giovani. Netta risposta: per nulla, se voi non sapete più perché accettereste di morire, e se la nostra società non è più capace di armarvi per sfidare quella morte. Una vita non vale se non in questa dura luce» (Le scuderie d’Occidente, pp. 158-159).

Una comunanza non soltanto di stile, che emerge pienamente quando Jean Cau porta fino all’estremo l’equazione tra comunismo e cristianesimo:

«Il comunismo è una vicenda del cristianesimo. […] Spettava al secolo XIX di rendere espansionista il socialismo. Fu l’opera di un ebreo messianico di genio –Karl Marx– il quale gettò in un medesimo mortaio la filosofia tedesca, l’economia inglese ed il socialismo francese, tritò il tutto e offrì tale forte pastone all’appetito dei popoli. […] Restava da trovare un popolo di abbastanza primitiva religiosità per riceverlo […]. Furono i Russi quel popolo semplice […]: un popolo senza tradizione di libertà e di libero esame; un popolo intriso di fede sino al midollo» (p. 174).

Cau intende il paragone nell’ottica di una giustificazione della “volontà di potenza”: «La morale che io amo […] viene sempre dopo l’atto e ne organizza le conseguenze» (p. 81). Per dovere di chiarezza, così enuncia la “verità” del cristianesimo:

«Siamo mai stati cristiani? Questa dolce eresia ebraica l’abbiamo ma integrata nelle nostre coscienze e nel nostro inconscio? Il Barbaro accettò l’innesto, tanto era dotato di forza e di crudeltà. Si adornò di finta dolcezza, e la morale cristiana fu la buona coscienza degli sfoghi della sua volontà di potenza. […] Il Cristianesimo fu, per secoli, la morale di un Occidente dinamico, ricco di espansione, di volontà, di tensione. Fu la sua innocenza proclamata» (pp. 75-76).

All’apparenza, sembrerebbe un nietzschianesimo annacquato; invece è un pensiero che va oltre Nietzsche e risponde a un bisogno (o una paranoia) degli intellettuali “occidentalisti” dell’epoca, la necessità di superare il nichilismo:

«Il giudeo-cristianesimo, – dice Nietzsche, – “morale da malati”. Adagio: non semplifichiamo troppo! Infatti, come una droga che eccita un organismo prima di distruggerlo, il giudeo-cristianesimo è stato una forza finché è rimasto una morale religiosa. È stata la sua laicizzazione quella che, portandolo a compimento, lo ha distrutto e lo distruggerà. […] Domandiamoci se il corsetto cristiano non abbia sorretto indurito l’Occidente barbarico, fino al secolo XIX, decuplicandone la forza» (p. 66).

«Età dell’oro! La morale era una cosa che poteva venire inventata; di cui un individuo –re, principe, imperatore, eroe, santo o soldato- poteva essere la sorgente e il garante. Inventata! Arrischiata! Osata! Inventata come lo è un’opera d’arte, e c’era una estetica dell’etica, un portamento e un’eleganza dell’atto morale» (p. 107).

È questo il messaggio nascosto dietro la prosa messianeggiante di don Gianni? Rimaniamo ancora nell’atmosfera di quegli anni seguendo le tracce del Baget Bozzo “sovietico” che attraversò gli anni ’80 del secolo scorso lanciando strali verso il pontificato di Giovanni Paolo II, reo di aver scelto un «protagonismo impotente» contro il «segno globale del mutamento» (rappresentato dal sistema imperiale comunista). Uno “storico” articolo apparso su “l’Unità” (Parole gesti viaggi che fuggono via, 16 ottobre 1983) restituisce un lato dell’Autore che in pochi conoscono:

«Sul pontificato di Giovanni Paolo II forse ora un discorso è impossibile. Non perché in esso siano elementi contraddittori tali da impedire la sintesi: ma forse per la ragione contraria. Tutto sembra già essere stato detto. Da questo Papa, coinvolto in tanti drammi, compreso quello che ha toccato la sua stessa vita, compreso quello di cui tuttora è protagonista. Il suo popolo, non si può dire che emani un senso di dramma o di pathos. Il Papa è divenuto una figura spettacolare, ma dello spettacolo ha assunto di fatto la leggerezza.
Dell’incontro del Papa e Walesa, la figura che è generalmente drammatica è quella dell’operaio polacco: tanto che sorge il dubbio che don Levi abbia sbagliato il riferimento. Forse non è Lech Walesa che è uscito di scena in Polonia. Forse a uscir di scena, con il suo secondo viaggio, è stato proprio papa Wojtyla. Le acque si ricompongono dopo che la sua scia è passata: nulla è mutato, nulla è veramente accaduto. Jaruzelski può ora persino togliere i crocifissi dalle scuole. E Walesa è tutt’altro che uscito di scena. È piuttosto il profilo della Chiesa che si è abbassato. La forte opera di Wyszynsky lo aveva innalzato: l’immagine di Wojtyla l’ha gonfiato, ma poi lo ha lasciato afflosciare.
E così: che significato ha avuto il viaggio contemporaneo in Inghilterra, in Argentina, durante la guerra delle Falkland-Malvinas? Che volevano dire parole così nette contro la guerra come quelle pronunciate a Coventry o a Cardiff quando il gesto stesso del viaggio indicava che la guerra non era un fatto tanto rilevante da impedirlo dopo che era stato così attentamente preparato? Se lo scopo del viaggio era la solenne cerimonia di Canterbury, ci si sarebbe dovuto attendere un esito significativo sul piano ecumenico. Ma l’incontro con la Chiesa anglicana a Canterbury è stato qualcosa di più di una grande sceneggiata? È significativo che proprio in questi giorni l’Arcic, la commissione mista tra cattolici ed anglicani che in un decennio di lavoro aveva prodotto documenti significativi sull’Eucarestia, sui ministeri ordinari, sul papato, veniva sciolta. I suoi risultati venivano criticati dalla Congregazione per la Dottrina della fede e veniva annunziata una nuova commissione, peraltro ancora non costituita. Anche qui il solenne gesto di riconciliazione terminava nel nulla del suo significato, sul piano pratico e concreto.
E così quale risultato ha avuto il viaggio nelle tormentate terre del Centro America? Il predicatore della setta neo-protestante del Verbo, Rios Montt, non ha nemmeno preso in considerazione l’appello del Papa per la salvezza di 5 condannati a morte. Il Papa, in compenso, con il suo viaggio ha avvallato di fatto l’attacco contro Managua, il che, nonostante tutto, non era nelle sue intenzioni. Egli è sceso clandestinamente circondato dai militari a rendere omaggio alla tomba di mons. Romero, ma ha dovuto dare pubblicamente la mano a D’Aubuisson, cioè al mandante del suo assassinio. Con ciò non ha avvallato né Romero né D’Aubuisson. non ha rafforzato nessuna parte in campo. Non ha nemmeno dato un’immagine nuova e prioritaria alla Chiesa salvadoregna. Basti pensare invece come avrebbe reagito Paolo VI, alla morte di mons. Romero, lui, il Papa della Evangelii Nuntiandi, cui Romero aveva conformato la sua vita.
I viaggi del Papa sono viaggi senza messaggi e per questo senza effetto. E si capisce bene. Tutti i viaggi sono strutturati secondo il medesimo scenario, dicono ovunque le stesse cose, per i medesimi fini. Ovunque il Papa parli, egli parla sempre della Chiesa-istituzione: parla ai vescovi, ai preti, ai religioso, ai seminaristi, agli operai, ai giovani, alle famiglie cristiane. È il medesimo rituale con le medesime parole con il medesimo fine: rinsaldare la disciplina ecclesiastica tradizionale. Il Papa ovunque potrebbe raggiungere i medesimi scopi parlando in lingue diverse dalla radio vaticana.
Il Papa c’è, è lì, lo si vede, lo si tocca. Dappertutto. È un’immagine abituale per il telespettatore del pianeta, anche se prima o poi, per l’usura inevitabile di ogni spettacolo, cadranno gli indici di ascolto e di gradimento.
Ma c’è il papato? Si ha l’impressione che la Chiesa sia in realtà così lasciata allo sbando, così affidata alla mera routine: che di nessuno problema “colui che siede” si faccia veramente carico, oltre che della sua immagine omnicomprensiva.
Qual è per esempio la portata dottrinale del pontificato di Giovanni Paolo II? A cinque anni dall’inizio di esso, il suo profilo dottrinale sembra tanto difficile a scorgersi quanto quello pastore e politico appare chiaro. Eppure cinque anni erano bastati a Pio XII, a Giovanni XIII, a Paolo VI per qualificare il loro ministero: e in quali termini. Nel caso di Giovanni Paolo II è invece difficile trovarlo. Un giorno il Papa parla della mancata concezione volontaria nel matrimonio come se fosse un peccato di idolatria. Pochi giorni dopo fa tranquillo riferimento ed affidamento ai cicli naturali. Le parole fuggono via senza lasciare traccia, come i gesti ed i suoi viaggi»

Queste parole ci suggeriscono un segreto, se non una “verità indicibile”, che nel corso della sua carriera intellettuale Baget Bozzo sembra aver riservato solo a lettori fidati. Ho provato a rivolgere la domanda a Piero Vassallo che ha avuto la gentilezza di rispondermi nonostante la sua lunga amicizia con don Gianni:

«Baget è defunto e io non posso far altro che ripetere quello che dicevo di lui quanto era vivo.
Nell’agosto del 1968, mi recai in viaggio a Praga ed ebbi la fortuna di conoscere un giornalista della radio locale, segretamente anticomunista e capace di esprimersi in francese e in italiano, che mi introdusse nei circoli culturali di Praga dove fermentava un anticomunismo feroce.
Il giorno dell’arrivo dei carri russi rientrai in Italia e immediatamente mi recai da Baget Bozzo –allora ero collaboratore di “Renovatio” e docente della facoltà teologica insieme con lui – e “festante” gli comunicai che il comunismo stava spegnendosi nella coscienza dei giovani.
Baget Bozzo con mia somma sorpresa mi rispose che non avevo capito niente, che la rivolta aspirava alla dolce vita ed era una rivolta di corrotti. Il comunismo invece era il pilastro della virtù.
A quel punto, presi le distanze.
Lo ritrovai nel 1994; scriveva su “Repubblica” ma aveva già aderito a Forza Italia. Si dichiarava contrario alla messa in latino che io, quale presidente genovese di Una Voce, facevo celebrare nella cappella delle Suore Domenicane. In seguito volle celebrare la messa in latino.
Insomma capriole e capriole: da Dossetti a Gedda da Gedda a Tambroni da Tambroni a Siri da Siri a Donat-Cattin da Donat-Cattin a Craxi e via girando… Una biografia strana, a dir poco».

Questo giudizio assomiglia in parte (non me ne voglia Vassallo!) a quello espresso da Cacciari nel suo necrologio: «Per don Gianni, quando la crisi del “secolo” diventa tanto acuta da apparire insolubile, la Provvidenza invia singoli uomini nel “tentativo” di mantenere il mondo in una qualche forma» (Cacciari, volevo molto bene a don Gianni, “Adnkronos”, 8 maggio 2009).

In realtà lo stesso don Gianni era stato piuttosto severo con se stesso, definendosi più volte come una “puttana nata”, «che in politica si accompagna con chi le paga».

Al di là del machiavellismo (tentazione perenne di ogni intellettuale), è necessario comprendere per quale motivo una personalità come Baget Bozzo abbia riposto speranze escatologiche nel socialismo reale e abbia trovato in esso una “provvisoria necessità” (sempre Cacciari) per rispondere all’inquietudine dei tempi.

Ancora nel 1983, don Gianni lancia un ulteriore attacco a Giovanni Paolo II e rinnova la “professione di fede” nell’URSS:

«I viaggi di papa Wojtyla non hanno messaggio o spessore. I testi sono un costante rituale, una continua ripetizione dell’identico. […] Ciò che in Paolo VI era direzione, segno, diviene con Giovanni Paolo II mera identificazione della Chiesa con il suo passato perpetuo. […] I viaggi finiscono per divenire la testimonianza dell’impotenza politica proprio mentre esaltano la presenza del papa nella storia. […] Il papato assume oggi con Wojtyla un ruolo rischioso e improbabile di un protagonismo impotente. Proprio in Polonia questo gioco può essere estremamente rischioso, perché finisce per rendere instabile quel delicato equilibrio tra l’autonomia polacca e la sua inclusione nel sistema imperiale sovietico costruito dal cardinale Wyszynsky» (“Il bisogno di religione”, In nome del padre, Laterza, Bari, 1983, pp. 239-277).

Quella che pare una fissazione momentanea, o una ricreazione nelle risacche della Guerra Fredda, si trasforma in “riserva escatologica” (ancora Cacciari!), che unisce messianesimo e imperialismo:

«Il comunismo, che ricomparve avendo come termini storici essenziali, nel giorno della sua potenza, il pensiero ebraico e la potenza umana dell’Oriente, è dal punto di vista della scienza del principio e della fine, la teologia, il segno globale del mutamento della stagione storica nel segno del Signore che è e che viene. […] Il comunismo russo ha spezzato il concetto di una società fondata sul principio servo/padrone come valore. Si può ben dire che la società sovietica non è di fatto egualitaria; ma non si può negare che la sua stessa struttura coercitiva, quindi necessariamente inegualitaria, sia un immenso sforzo per impedire il potere delle minoranze qualificate e per assicurare come valore universale il principio più difficile a realizzarsi: quello della uguaglianza dell’uomo» (I cattolici e la lettera di Berlinguer, Vallecchi, Firenze, 1978, p. 37, 62).

Non è piacevole rivangare negli scritti “maledetti” di colui che divenne in seguito profeta dell’americanismo e del cristianismo occidentale; ciò che resta è una volontà di potenza che impone un valore fasullo alle categorie del “Bene” e del “Male” (per un nichilista, solo flatus vocis):

«Le radici americane della politica come luogo dello scontro tra il bene e il male hanno avuto un’importanza che l’Europa non può comprendere. E che gli islamici, proprio perché conoscono la differenza tra bene e male e hanno una teologia del Maligno, possono comprendere meglio. Questo è il fondamento spirituale dell’impero americano. Votando contro Aznar, la Spagna ha scelto la parte del male» (L’Impero d’Occidente, Lindau, Torino, 2004, p. 120).

Tutto ciò rappresenta una pesantissima ipoteca sul pensiero conservatore che ha preso le mosse da Gianni Baget Bozzo, arruolandolo come Defensor Occidentis. Il problema non si risolve relegando le pagine del don Baget comunista tra le “ubbie giovanili”, poiché la tara è rimasta: il filo conduttore con cui riconsiderare l’opera di Bozzo, oltre all’ateismo devoto, è anche l’avversione (palese o celata) per Papa Wojtyla.

Rileggendo gli articoli e i libri di Don Gianni, si ritrova l’implicita condanna al magistero di Giovanni Paolo II, modellata spesso su quegli stessi motivi del 1983: spettacolarismo e mancanza di incisività. L’Occidente di Baget Bozzo in pratica esclude Karol Wojtyła poiché non si lasciò strumentalizzare da nessun Impero. Triste epilogo, per colui che cercò la salvezza nell’autorità, e alla fine non seppe riconoscerla.

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