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Il complesso del bullizzato

Gli anni passano ma io continuo ad essere quel ragazzino che nei lunghissimi anni di scuola dell’obbligo ha atteso invano l’apparizione sulla soglia dell’aula di un Veltro, un Soter, un Basileus, un Melchisedek, un Kalki-Avatara, un dodicesimo Imam, un Dom Sebastião – o almeno un rais, un conducator, un pascià (non uso termini italiani o tedeschi per evitare imbarazzi). Potrei ammantare tutto questo con argute annotazioni teologico-politiche o antropologiche sull’invincibile desiderio umano di un Messia, ma per quel che mi riguarda, tutto nasce tra banchi e lavagne (anche se la consapevolezza è venuta più tardi, a giochi fatti – altrimenti avrei agito con la forza di chi sa che il cielo appartiene ai violenti).

L’archetipo del “giusto monarca” sarà pure universale, ma in una scolaresca ci sono molti individui che sembrano non tenerlo in nessun conto (a meno di non voler interpretare le loro mascalzonate come una richiesta inconscia di essere puniti il più severamente possibile). Tuttavia non vorrei portare il discorso sull’argomento “scuola”, perché è un tema impossibile da affrontare senza tirare in ballo il Maestro Perboni e altre amenità. In fondo dall’istituzione mi aspettavo una sola cosa: che provvedesse alla mia istruzione. Sarebbe stato bello studiare e basta, invece di trovarmi coinvolto in una gara di violenza e volgarità, dove peraltro le regole erano truccate e l’arbitrio si rifiutava di intervenire.

In realtà dovrei pensare che tutto ciò sia avvenuto a causa mia poiché, al di là di tutti i bei discorsi, ancora oggi il bullismo è considerato dalla collettività come una specie di esperienza formativa (soprattutto da quei buonisti che, non potendo ammettere che la realtà non è buona, sfogano tutta la frustrazione sulle vittime – come certe maestrine che si accaniscono sui più bravi perché non resistono al fascino maudit del teppistello di periferia).

Il problema, poi, non è nemmeno il “bullismo” in sé, dato che i comportamenti classificati sotto questa sigla in forme più o meno attenuate sono sempre esistiti: il dramma è la diserzione degli educatori – anzi delle educatrici, ché il 99% dei miei insegnanti erano donne. Da adulto è una cosa che puoi anche affrontare, ma da ragazzo non riesci proprio ad accettarla. Questo mi ha creato una serie di ossessioni e complessi dei quali fatico ancora a liberarmi.

Non riesco, ad esempio, a far meno di bollare come “buonista” anche la più minima concessione all’antropologia positiva: quando un leader annuncia una “liberazione” o una “democratizzazione” (ovvero, smaltiti i quintali di massa, un allentamento delle regole a livello morale e legislativo), io sento dei brividi scorrermi lungo la schiena. Ho provato sulla mia pelle cosa sia la latitanza dell’autorità: sembra una frase tanto suggestiva quanto vittimista, ma si riferisce a un problema concreto, poiché nell’immediato ha influito sui miei risultati scolastici, e alla lunga mi ha fatto quasi passare la voglia di vivere. Questo non è chiaramente un modo per affibbiare la colpa agli insegnanti che ho avuto: le responsabilità vanno al di là dei singoli. A furia di ripetere che “punire non basta”, si è finito per non punire più, se non allo scopo di riabilitare, recuperare, “far crescere” ecc…

Comunque, tutta questa premessa da sfigato era solo un modo per differire il momento in cui avrei dovuto chiarire il senso di essa; ovvero spiegare perché Papa Francesco non suscita in me alcun entusiasmo. Probabilmente si è già capito: l’esperienza mi insegna che quando in classe arriva il maestro “buono”, che rifiuta di detenere il monopolio della violenza, i deboli sono spacciati. Sono tuttavia convinto che Bergoglio è stato un ottimo docente (ha portato Borges in aula, non scherziamo), perciò credo che l’unica via di salvezza sia quella di ridurre la questione a un problema personale. È per questo che ho affrontato il discorso lasciando da parte premesse generali e osservazioni generiche per caricare tutto su me stesso, sputtanando sin dal principio ogni possibilità di seria riflessione. Intendo dire che quando critico Papa Francesco, quando confondo la sua misericordia col lassismo, lo faccio solo perché ho il complesso del bullizzato: se difetto di entusiasmo nei suoi confronti, è solo colpa mia, quindi non prendetemi sul serio. Spero che questa ambiguità non mi pregiudichi la salvezza, altrimenti tanto varrebbe incazzarsi senza fornire alcuna spiegazione.

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