Il consumismo ti consuma

La destra ha sempre avuto un rapporto come minimo “ambiguo” col consumismo, tuttavia da oltreoceano stanno emergendo dei tentativi di “reazione” (no pun intended) contro l’industria pubblicitaria, e non solo per motivi politici (anche se è evidente che quel campo si è “sinistrizzato”: sul punto ci si può rivolgere con profitto a Tucker Carlson), ma anche culturali ed etici.

Negli ultimi tempi i motivi di scontro tra conservatorismo e consumismo sono stati infiniti: qualcuno ricorderà il caso dello spot della Gilette  contro la “mascolinità tossica”, espressione di un trend che va di pari passo con la “transgenderizzazione” della reclamistica e le già usurate “liturgie lgbtq+”,  da anni culminanti (ancora, no pun intended) nel famigerato Pride Month, il mese (generalmente giugno) nel quale i loghi delle multinazionali si colorano di arcobaleno.

Questa unione di mercato, diritti civili, omologazione e propaganda si interseca ora nel nuovo spot della Samsung, dove un bambino obeso di origine latina cammina per i corridoi della sua scuola ballando al ritmo di rap.

I commenti al video sono stati come al solito “controversi” e l’azienda ha provveduto a oscurarlo (dunque attualmente su Youtube risulta “non in elenco”, cioè visualizzabile solo a chi ha il link diretto). Già questa misura smentisce la convinzione che si tratti sempre e comunque di viral marketing: il principio che “non esiste cattiva pubblicità” e che le multinazionali agiscano in tal modo solo per far parlare di sé sembra passare in secondo piano rispetto alla necessità di comunicare un “messaggio”.

Da questo punto di vista i complottisti hanno tutte le ragioni per scatenarsi sui motivi per cui un’azienda dovrebbe auto-sabotarsi in nome di battaglie elitarie e dai connotati palesemente “militanti”. Alla fine, paradossalmente, la spiegazione più semplice potrebbe essere proprio quella “complottistica”: il settore si è riempito di sinistroidi che vogliono mascherare la loro incapacità con la “nobiltà dell’ideale” e anche i cinici affaristi si stanno adattando all’andazzo.

Tuttavia la questione può essere resa in modo ancor più schematico: tutto ciò che pone dei limiti alla creazione del consumatore assoluto va eliminato. Nel caso specifico, osserviamo che il giovane protagonista ha una faccia da “indio”, ma la sua etnia è in realtà piuttosto indefinita: nonostante sia quasi sicuramente nato da immigrati sud- o centro-americani, la sua natura è quella di “apolide”, di un essere sradicato da qualsiasi appartenenza nazionale o “territoriale”.

I gusti musicali rispecchiano la sua (mancanza) di identità: il pezzo che ascolta riprendere i beat violenti e aggressivi del rap ma li accompagna a un testo così elementare da sembrare quasi un non-sense. L’obesità, invece, oltre a richiamare indirettamente la necessità di “consumare” e rappresentare una strizzatina d’occhio alla nuova minoranza aggressiva dei ciccioni fieri di essere tali (sembra una barzelletta ma quando cominceremo a leggere di medici licenziati per aver suggerito a un paziente di dimagrire ne riparleremo), è anche il modello più adatto a comunicare a livello subliminale la mancanza di forma e limite.

Tale “vaporosità” dei connotati si estende all’anagrafe: dall’aspetto non si riesce nemmeno a dedurre l’età del protagonista, anche se il contesto di una scuola primaria ci suggerisce sia davvero troppo giovane per portare un cellulare in classe e utilizzarlo nei corridoio. Manco a farlo apposta, ciò enfatizza l’ipotesi che per il pubblicitario odierno qualsiasi tipo di regola vada abolita o scavalcata se suscettibile di porre un limite all’acquisto.

Non mi stupirei però se saltasse fuori che il giovane attore è in realtà un guatemalteco di quarant’anni (come il famoso “bambino che fuma allo stadio”, in realtà un trentaseienne turco): ciò confermerebbe la natura “ibrida” del modello a ogni livello, che a questo punto assurgerebbe davvero alla manifestazione del consumatore perfetto, quello che non può vantare alcuna origine o appartenenza etnica e comunitaria (nonché religiosa e culturale), che ascolta solo musica riproducibile in serie nel minor tempo possibile, che non ha una età definita e naturalmente nemmeno una sessualità (in tal caso evitiamo commenti, ma è evidente che l’informità si estende indirettamente a quel campo) e che passa il suo tempo a consumare la batteria del cellulare e tutto il junk food che riesce a procacciarsi.

Penso sia proprio da tutto ciò che la destra voglia ripartire: il consumismo ti consuma. Non che ci volesse molto ad arrivarci, ma finché il fenomeno non ha cominciato a intaccare le care vecchie istituzioni “alienanti e borghesi”, il momento dell’inevitabile frizione era stato procrastinato a tempo indefinito. Ora però è giunto il redde rationem e con la diserzione completa di una sinistra che si fa motore di dissoluzione e nichilismo per facilitare la “libera circolazione” di qualsiasi cosa (merci, persone, identità sessuali, uteri, organi, droni) si spera che la reazione assuma la direzione di questa battaglia non in nome di una generica umanità, ma dell’umano stesso.

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