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Il conto del trumpismo

È doloroso vedere un grande Paese come l’America devastato da otto anni di trumpismo (sì, poi l’hanno rieletto): il Kansas City raso al suolo, Chicago illuminata a giorno, Giovanna Botteri criogenizzata, per tacere del povero Beppe Severgnini…

Ah già che Donald è appena arrivato. D’altronde il vero John Titor è proprio Trump, mica io, anche se non serve una macchina del tempo per intuire già la morale della storia: l’attuale Presidente, indipendentemente da quel che farà, verrà in ogni caso ricordato come il peggiore di tutti i tempi. Un po’ come Nixon e Reagan, colpito da una damnatio memoriae che non sarebbe giustificata nemmeno se avessero scatenato una guerra termonucleare a testa, perché tutto sommato pure loro hanno fatto anche cose buone. Ma che importa, alla fine: la storia ognuno la interpreta come vuole, ciò che davvero conta è non capire mai un cazzo e morire con quest’unica consapevolezza.

Tali malinconiche considerazioni sono in parte dovute alla riscoperta di una vecchia intervista che il Nobel per l’economia Paul Samuelson (1915–2009) rilasciò a “Panorama” nell’ottobre 1992 (M. De Martino, Il conto del reaganismo). Nonostante lo studioso sostenesse pubblicamente Bill Clinton (assieme ad altri “poeti laureati” come Franco Modigliani e Robert Solow) e si trovasse quindi dalla parte giusta della storia (in quanto  ebreo, americano e appunto dem), è pacifico ipotizzare che se al giorno d’oggi qualcuno affermasse le stesse identiche cose che egli disse allora, verrebbe immediatamente esposto alla gogna mediatica (e se lo avesse fatto Samuelson stesso prima dell’exitus, è probabile che i “democratici” di tutti il mondo avrebbe lanciato una petizione per fargli togliere il Nobel).

Infatti questo Samuelson sosteneva che gli Stati Uniti dei primi Anni Novanta non fossero in recessione, ma in “crescita recessiva”, e dunque possono fare debito, dal momento che «il vero disastro sarebbe cercare di pareggiare il deficit nel mezzo di una crisi profonda come quella di oggi».

Dunque la prima conclusione è che non si supera una crisi facendo austerità. Ok. Chiaramente resta però il problema del debito pubblico:

«Grazie alla politica di Reagan è aumentato a dismisura […], quanto avevamo alla fine della Seconda Guerra Mondiale, quanto ha l’Italia che si trova in fondo alla lista del buon governo economico».

Oh, ecco, finalmente cominciamo a intenderci: allora è tutta colpa di Reagan? Il giornalista ha l’ardire di chiederlo, ma Samuelson onestamente riconosce che quella recessione è sui generis e dipende anche dalla fine della Guerra fredda:

«Quando non è più necessario spendere il 5 per cento del prodotto nazionale lordo in strumenti di difesa, molti posti di lavoro sono destinati a scomparire».

La soluzione? Usare i militari “in senso keynesiano” per mantenere alto il livello d’occupazione, poi farli passare gradualmente al settore civile, «anche se tutto questo peserà sul bilancio»… No, non ho capito. Cioè, ho capito che voleva fare propaganda a favore di Clinton (risanare il debito facendo più debito, che in effetti è l’unica soluzione quando lo fanno quelli simpatici), però alla fine mi sfugge se il fottutissimo military keynesianism sia una cosa buona o cattiva (o è “cattiva” solo quando la fanno i “cattivi”?).

Non sarà magari colpa degli americani fannulloni? Con Samuelson l’argomento non attacca (d’altronde mica è italiota): a proposito del suo “caro amico” Milton Friedman, egli afferma che di fronte a certe questioni si comporta da “indemoniato”, contrapponendo alle posizioni liberiste una saggia “flessibilità” («Non solo perché guido una Nissan invece che una Ford»).

La parte più imbarazzante dell’intervista è quella sull’euro, che pur avendoci garantito settant’anni di pace, nel 1992 ancora non esisteva. Ecco cosa sosteneva Samuelson parlando “dell’Europa del futuro”:

«Solo chi crede ancora alla favola della formazione di una valuta comune e di una banca centrale entro il 1999 può non essere preoccupato dagli ultimi avvenimenti: i danesi hanno votato contro il trattato di Maastricht, la Svezia ha dovuto alzare il suo tasso di interesse del 500 per cento l’anno, la Gran Bretagna non ha potuto stabilizzare la sterlina ed è dovuta uscire dal mercato, perfino la Spagna ha dovuto svalutare del 5 per cento. Per non parlare dell’Italia. Questa è la realtà: la costituzione di un mercato comune non è indolore. Per il semplice motivo che i partner sono diseguali.
In Italia l’inflazione viaggia a una media quasi del 6 per cento. In Germania la media è del 3 per cento. Come si fa a trovare un punto di equilibrio permanente tra dati non flessibili come questi? Credo certamente che l’Italia abbia bisogno della austerity imposta di recente dal suo governo. Ma non credo che la lira debba essere messa in relazione al marco.
Le monete più forti come il marco, il franco francese, il franco belga e forse la corona danese possono continuare nella formazione di un mercato comune. Ma non vedo perché la lira, la sterlina e la peseta debbano formare una nuova unità. Bisogna ricordare che gli Stati Uniti hanno cinquanta Stati e un dollaro. E che qui, quando una regione va in crisi, la gente trasloca. Non riesco a immaginare lo stesso in Europa».

Allora anche la storia contemporanea, oltre che quella universale, non è che una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla (Macbeth, V, 5)? E il bello è che Samuelson gongola pure: gli americani possono fare quello che vogliono, perché «noi non dividiamo il nostro letto col marco tedesco».

Poi, non so bene cosa sia successo. Da quel che leggo ancora tra le mie cartacce, pare che la campagna di Bill Clinton sia stata molto aggressiva; il giovane e rampante democratico aveva promesso una sola cosa agli americani: lavoro. Uno degli slogan della campagna fu People First: non la pace universale, non il libero mercato, non i diritti civili delle minoranze sessuali.

L’urgenza principale era quella di riportare negli States i posti di lavoro che gli industriali avevano delocalizzato a Taiwan e nel Messico (parlava così il vecchio Bill, che ci posso fare). Tutto questo avrebbe ovviamente comportato una minaccia al libero scambio, come lo stesso Samuelson notava con preoccupazione (pur continuando a sostenere il programma economico del candidato democratico!):

«Una volta erano i repubblicani dalla parte del protezionismo. Ora lo sono i democratici. Con loro al governo il rischio protezionista è sempre dietro l’angolo».

Anche qui, la morale mi sfugge ancora: è giusto difendere il lavoro a scapito del mercato? Cioè, se uno è simpatico gli diciamo di no, ma poi glielo lasciamo fare?

La tentazione di sfogliare le riviste del 1996 o del 2000 è forte, almeno per sciogliere qualche dubbio. Ma per adesso continuerò a saltare dal 1992 al 2024 con la consapevolezza che Trump sarà in eterno il Worst. President. Ever.

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