La pandemia non ferma Žižek: “Non smetterò mai di sparare cazzate!”

Clear racist element to hysteria over new coronavirus
(Slavoj Žižek, RT, 3 febbraio 2020)

Alcuni di noi, compreso il sottoscritto, vorrebbero in questo momento essere in incognito a Wuhan in questo momento, per assistere a un film post-apocalittico in versione reale. Le strade vuote della città regalerebbero l’immagine di un mondo non consumistico a proprio agio con se stesso.

Il coronavirus è su tutte le prime pagine e, pur non essendo io un esperto di medicina, mi domando: dove finiscono i fatti e dove inizia l’ideologia? I

l primo “enigma” è scontato: ci sono epidemie molto più letali in corso, quindi perché una tale ossessione per questo coronavirus quando migliaia di persone muoiono ogni giorno a causa di altre malattie infettive?

Un caso estremo fu la pandemia del 1918-1920, nota come influenza spagnola, quando il bilancio delle vittime fu di almeno 50 milioni. La malattia infettò 15 milioni di statunitensi, almeno 140.000 persone furono ricoverate in ospedale e più di 8.200 persone morirono.

Sembra che qui sia ovviamente in atto una sorta di paranoia razzista: ricordo le bufale sulle donne cinesi a Wuhan che scuoiano serpenti vivi e bevono zuppa di pipistrelli. Quando invece una grande città cinese è probabilmente uno dei luoghi più sicuri al mondo.

C’è tuttavia un paradosso più profondo all’opera: più il nostro mondo è connesso, più un problema locale può scatenare la paura globale e alla fine una catastrofe.

Nella primavera del 2010, una nuvola proveniente da una piccola eruzione vulcanica in Islanda bloccò il traffico aereo di gran parte dell’Europa: un memento di come, indipendentemente da tutta la sua capacità di trasformare la natura, l’uomo rappresenta solo una specie come tante altre per il pianeta Terra.

Il catastrofico impatto socio-economico di un evento così piccolo è dovuto al nostro sviluppo tecnologico (trasporto aereo). Un secolo fa un’eruzione del genere sarebbe passata inosservata. Lo sviluppo tecnologico ci rende più indipendenti dalla natura e allo stesso tempo, a un livello diverso, più dipendenti dai capricci della natura. E lo stesso vale per la diffusione del coronavirus: se fosse successo prima delle riforme di Deng Xiaoping, probabilmente non ne avremmo nemmeno sentito parlare.

Quindi, come combattere il virus quando si moltiplica come una forma invisibile e parassitaria e il meccanismo rimane sconosciuto? È questa mancanza di conoscenza che provoca il panico. Cosa succede se il virus muta in modo imprevedibile e innesca una vera catastrofe globale?

Questa è una mia personale paranoia: il motivo per cui le autorità sono nel panico è perché conoscono (o almeno sospettano) qualcosa sulle possibili mutazioni del virus che non vogliono rendere pubblico per evitare isteria di massa e rivolte collettive? Perché gli effetti finora sono relativamente modesti. Una cosa è certa: l’isolamento e ulteriori quarantene non serviranno.

È necessaria la piena solidarietà incondizionata e una risposta coordinata a livello globale, una nuova forma di quello che una volta era chiamato comunismo. Se non orientiamo i nostri sforzi in questa direzione, Wuhan sarà l’immagine del nostro futuro.

Molte distopie hanno già delineato un destino simile. Per lo più restiamo a casa, lavoriamo sui computer, comunichiamo attraverso videoconferenze, pigiamo i tasti in un angolo del nostro home office, talvolta ci masturbiamo davanti a uno schermo e riceviamo cibo a domicilio.

Vi è, tuttavia, una prospettiva di emancipazione inaspettata nascosta in questa visione da incubo. Devo ammettere che negli ultimi giorni ho sognato di visitare Wuhan. Le strade semi-abbandonate di una megalopoli (i centri urbani di solito affollati sembrano città fantasma, negozi aperti senza clienti, solo qualche passeggiatore solitario o un’auto qua e là, individui tutti bardati di mascherine) non forniscono l’immagine di un mondo non più consumista e a suo agio con se stesso?

La bellezza malinconica dei viali vuoti di Shanghai o Hong Kong mi ricorda alcuni vecchi film post-apocalittici come L’ultima spiaggia, che mostrano città in cui la maggior parte della popolazione è stata spazzata via: nessuna distruzione spettacolare, solo un mondo ormai non più adatto a noi, che non ci aspetta più, che non guarda più a noi.

Anche le mascherine indossate dalle poche persone che camminano offrono un piacevole anonimato e la liberazione dalla pressione sociale per il riconoscimento.

Molti di noi ricordano la famosa conclusione del manifesto situazionista degli studenti del 1966: Vivre sans temps mort, jouir sans entraves – “Vivere senza tempo morto, godere senza ostacoli”. Se Freud e Lacan ci hanno insegnato qualcosa, è che questa formula, caso da manuale di un’ingiunzione del Super-io (dal momento che, come ha giustamente dimostrato Lacan, il Super-io è nella sua sostanza un’ingiunzione positiva da godere, non un atto negativo di proibire qualcosa) è la formula per un disastro annunciato. L’impulso di riempire ogni attimo con qualcosa di impegnativo e intenso sfocia inevitabilmente in una soffocante monotonia.

I “tempi morti” (quei momenti di ritiro che i mistici definivano Gelassenheit, “calma assoluta”) sono cruciali per la rivitalizzazione della nostra esperienza. E, forse, si può sperare che una conseguenza non intenzionale della quarantena del coronavirus nelle città cinesi sarà che almeno alcune persone useranno i tempi morti per liberarsi dall’attività frenetica e pensare al (non) senso della loro situazione.

Sono pienamente consapevole del pericolo che sto sollecitando nel rendere pubblici questi miei pensieri, perché potrei attribuire alla sofferenza delle vittime una visione più profonda e autentica dalla mia posizione esterna sicura e quindi legittimare cinicamente la loro sofferenza. Quando un cittadino mascherato di Wuhan va in giro alla ricerca di medicine o cibo, non ci sono assolutamente pensieri anti-consumistici nella sua mente, ma solo panico, rabbia e paura. La mia ipotesi è solo che anche eventi orribili possano avere conseguenze positive imprevedibili.

Secondo Carlo Ginzburg vergognarsi del proprio paese, non amarlo, potrebbe essere il vero segno di appartenenza ad esso. Forse alcuni ebrei troveranno il coraggio di provare vergogna per Netanyahu e per le iniziative di Trump a favore di Israele: non, ovviamente, nel senso di vergognarsi di essere ebrei, ma di provare vergogna per ciò che le azioni di Israele stanno facendo all’eredità più preziosa del giudaismo stesso. Forse alcuni inglesi dovrebbero anche essere abbastanza onesti da provare vergogna per il sogno ideologico che li ha condotti alla Brexit. Per il popolo di Wuhan non però è il momento di vergognarsi e di essere stigmatizzati, ma di avere coraggio e perseverare pazientemente nella lotta.

Quelli che in Cina hanno tentato di minimizzare l’epidemia, dovrebbero vergognarsi proprio come i funzionari sovietici che pubblicamente affermarono che non vi era alcun pericolo a Chernobyl mentre evacuavano immediatamente le loro stesse famiglie. O come quei top manager che negano pubblicamente il riscaldamento globale ma stanno già comprando case in Nuova Zelanda o costruendo bunker di sopravvivenza nelle Montagne Rocciose.

Forse l’indignazione pubblica per questo comportamento (che sta già costringendo le autorità a promettere trasparenza) porterà a un altro sviluppo politico positivo non intenzionale in Cina. Chi dovrebbe vergognarsi veramente sono tutti quelli nel mondo che stanno pensando solo a come mettere in quarantena i cinesi.

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