Mi spiace per chi storce il naso (lo snobismo è comunque un indicatore essenziale di ignoranza), ma su questo blog si continuerà a parlare del delitto di Garlasco finché non si sarà giunti a un punto fermo al riguardo, che naturalmente non può essere rappresentato dalla condanna “passata in giudicato” (formula ripetuta in maniera robotica dai “colpevolisti”) di Alberto Stasi (trovate qui tutti gli articoli che ho finora dedicato alla questione).
L’unica cosa che mi preme specificare è che non sono animato da alcun interesse morboso stile True Crime: a me non piacciono i fatti di sangue, non mi affascina in alcun modo la violenza e penso che il volemose bbene sia una dottrina santa, tanto che se potessi tornare indietro nel tempo mi impegnerei in una politica di pacificazione nei confronti di sapiens e neanderthal, così come di Caino e Abele.
Tuttavia, questo caso è suscettibile di rappresentare, nel XXI secolo, la “madre di tutte le ingiustizie”, nella misura in cui da una parte la condanna di Stasi rivela le inceppature della “perfetta macchina giudiziaria” italiana, e dall’altra la cappa di silenzio e omertà che è calata sul paesino del pavese è contraddistinta da risvolti obiettivamente inquietanti (non dico da “Rosa Rossa”, ma quasi – e ci torneremo subito).
Lo sventurato Alberto è stato vittima di un antico vizio della giustizia nazionale, che in particolare quando indaga su delitti che hanno avuto -per un motivo o per un altro- una certa rilevanza mediatica, si comporta come quel signore della nota barzelletta che ha perso le chiavi in un cortile poco illuminato ma si mette a cercarle sotto un lampione a decine di metri di distanza perché “almeno qui c’è luce”.
Tuttavia, pur considerando Stasi un malcapitato a cui gli inquirenti hanno disegnato un bersaglio sulla schiena e poi hanno iniziato a puntare tutte le metaforiche freccette su di esso (l’immagine è di un ingegnere forense intervistato da “Le Iene”), al contempo mi sfugge il senso di molti suoi atteggiamenti.
Prima di tutto, il modo di comportarsi nel momento in cui ha ritrovato il cadavere della sua fidanzata in un lago di sangue: il fatto che non sia sceso per le scale che portano alla cantina a sincerarsi della sua condizione, ma anzi sia scappato immediatamente dai carabinieri quasi per cercare protezione, ha di per sé contribuito a forgiarne l’immagine negativa agli occhi dell’opinione pubblica.
È vero, del resto, che siamo tutti bravi a giudicare nel momento in cui non abbiamo vissuto certe orribili esperienze, ma il timore di ritrovarsi al cospetto di un serial killer come se una provincia dell’Italia settentrionale assomigliasse al set di un brutto film dell’orrore americano suscita più di un dubbio. E, in aggiunta, ci si potrebbe domandare anche perché lo stesso Stasi, seppur concedendosi alle telecamere per proclamare la propria innocenza, non abbia mai accennato a qualche ipotesi alternativa sull’identità dell’assassino.
Comprendo, è vero, la necessità di evitare querele, ma qui mi pare si possa intuire un timore ben più grande e oscuro, che sembra minacciare tutti i protagonisti diretti o indiretti della vicenda, dai testimoni reticenti alle compagnie di amici fino al clan famigliare. Tale sensazione di trovarsi al cospetto di un muro di gomma, di un’omertà tanto diffusa quanto enigmatica, ha suscitato a molti (compreso il giornalista de “Le Iene” Alessandro Di Giuseppe) il paragone con Twin Peaks, la serie televisiva statunitense ideata da David Lynch che ha entusiasmato il pubblico internazionale negli anni ’90 del secolo scorso.
Ora, io non so quanti miei lettori abbiamo visto almeno un episodio di quest’opera che -per motivi incomprensibili- è diventata un cult specialmente tra i boomer italiani (forse perché venne trasmessa in maniera martellante da Mediaset?), ma sono costretto a spoilerare tutto lo spoilerabile. Che poi in realtà è molto poco, perché si capisce che Lynch voglia farsi beffe del pubblico televisivo abituale di polizieschi e telenovele prendendolo letteralmente per il naso e portandolo verso orizzonti di insensatezza, surrealismo ed esoterismo.
Infatti, per non scadere nella critica cinematografica e davvero spendere due parole per le trenta puntate (anzi 49, considerando tardive “stagioni” e prequel) che caratterizzano il mystery-horror drama, si può semplicemente ricapitolare la trama ricordando che Laura Palmer, la ragazza al centro dell’intera vicenda come “vittima sacrificale”, sarebbe stata uccisa da suo padre, Leland Palmer, posseduto però da un’entità malefica chiamata BOB, una presenza demoniaca che si nutre del dolore umano proveniente della Loggia Nera (un non-luogo composto da drappi rossi e pavimenti a scacchiera in cui dimora anche l’iconico “Nano che balla”).
Potete ben comprendere come, seguendo tale linea, le vicende si perdano in un delirio completo, un esito del resto voluto dallo stesso Lynch, il quale pare tenesse in modo particolare a plagiare le masse con la sua distorta visione delle religioni orientali, da egli trasformate in un maestoso camuffamento dell’insensatezza della vita umana, di qualsiasi vita umana.
Dunque, per tornare coi piedi per terra, paradossalmente vorrei rifarmi ancora al regista americano (scomparso peraltro all’inizio di quest’anno), citando un altro suo “capolavoro”, Mulholland Drive (2001), pellicola anch’essa incomprensibile ma la cui lettura più plausibile è quella che la vorrebbe rappresentazione del sogno di una delle protagoniste (un’aspirante attrice interpretata da Naomi Watts), intenta a ingaggiare un sicario per uccidere la sua principale concorrente e garantirsi così una carriera senza ostacoli a Hollywood.
In una scena del film, la figura del killer viene per l’appunto raffigurata come un imbranato incapace di tenere in mano una pistola, ma a quanto pare questa sarebbe solo una fantasia della committente, quando invece nella realtà “reale” il personaggio è un freddo esecutore che liquida il suo obiettivo senza lasciar tracce.
Chiarito il paragone, voglio mettere definitivamente da parte le suggestioni cinematografiche (comprese alcune ricostruzioni dell’accusa!) e tornare al caso. Ripartiamo perciò dalle modalità con cui è stata brutalmente uccisa Chiara Poggi: sembra che chi l’abbia aggredita fosse un individuo a lei noto, dato che la vittima indossava il pigiama e non sembra abbia accennato a difendersi (e nemmeno abbia urlato per invocare aiuto). L’assassino ha dunque potuto agevolmente entrare in casa, discutere con lei, e poi colpirla in maniera inaspettata.
È inevitabile che in scenari come questo il primo pensiero vada alla persona più vicina alla vittima, non solo per la “familiarità” ma anche per la violenza dimostrata nell’aggredire il soggetto. Ai tempi non era ancora entrata in voga l’espressione “femminicidio”, ma se si fosse potuto collocare l’allora fidanzato della vittima sul luogo del delitto con elementi concreti e non con indizi vaghi, supposizioni indebite e ricostruzioni che negano qualsiasi logica, allora avrebbe avuto un senso torchiare Alberto Stasi fino a farlo confessare.
Nel caso in questione, però, il fidanzato sembra totalmente estraneo alla scena del crimine, e per di più sia le sentenze di assoluzione che di condanna attestano l’assenza di qualsivoglia movente (si è ipotizzato che la povera Chiara avrebbe scoperto -inesistenti- immagini pedopornografiche sul computer di Stasi, mentre risulta che la ragazza fosse al corrente del consumo di pornografia anche spinta da parte del suo compagno e talvolta persino si lasciasse riprendere durante gli amplessi – spiace evocare certi dettagli, ma è quanto risulta dagli atti).
Inoltre, nei casi di femminicidio (l’espressione in verità è quasi usata a sproposito, ma accettiamo il “gioco” dei media), e soprattutto quando si è in presenza di un movente passionale, sembra che il carnefice a un certo punto sia disposto a “crollare” per rivendicare il suo gesto come espressione di una sofferenza insopportabile che gli avrebbe causato la vittima (magari per la decisione di lasciarlo). Nel delitto di Garlasco non c’è alcuna “passione” deviata atta giustificare l’esito sanguinario di una relazione che tutto sommato appariva normale, quasi banale nella sua assenza di conflittualità (lo stesso Stasi, giusto per rendersi più simpatico a una parte dell’opinione pubblica, ci ha tenuto a precisare che non erano una coppia di fidanzati “terroni” pronti a “strillare” il proprio amore in giro per la città).
Tornando alle modalità del delitto, Chiara è stata colpita la prima volta vicino alle scale, poi è stata trascinata per i piedi verso la porta a soffietto che conduce in cantina, colpita nuovamente perché ancora in vita, infine presa per le ascelle e gettata per le scale. Il corpo è stato lasciato lì e successivamente, forse dopo che il carnefice era già fuggito, è scivolato lungo gli scalini (le perizie indicano infatti una discesa progressiva causata dalla pendenza).
Ciò mi fa pensare che la persona che l’abbia uccisa, la quale comunque sapeva com’era fatta la casa per intuire immediatamente dove si trovasse l’ingresso della cantina, abbia tentato di far risultare Chiara vittima di una caduta accidentale, magari dovuta a un malore. Ed è qui che il caso si complica davvero in maniera lynchiana, perché il primo elemento accusatorio della condanna, e cioè che Alberto Stasi abbia cercato di far passare la morte della sua fidanzata proprio per un incidente domestico, si basa esattamente su dicerie messe in giro da non si sa chi e non confermate da alcuna testimonianza.
Ed è così che, del resto, al processo i carabinieri hanno giustificato il via vai sulla scena del delitto senza l’assunzione di alcuna precauzione (nemmeno il semplice utilizzo di calzari): “Ci avevano detto che era stato un incidente domestico”. E incalzati su chi fosse stato a dirglielo, hanno ripiegato su suggestioni personali senza poter accusare in alcun modo l’allora imputato, che anche dalla famigerata telefonata al 118 -apparsa su ogni media possibile- afferma testualmente “Credo che l’abbiano uccisa”.
Non voglio fare nomi perché neanch’io nutro il desiderio di beccarmi una querela, ma fra tutti gli “attori” di questo fatto orrendo Alberto Stasi è forse l’unico a non aver mai accennato alla possibilità che la sua fidanzata potesse essere caduta dalle scale e aver battuto la testa. E, d’altro canto, l’unico motivo per cui ne stiamo parlando è che le procure stanno facendo a gara per riaprire il caso con qualsiasi espediente possibile (per esempio ipotizzando un “concorso in omicidio” tra due persone, Alberto Stasi e Andrea Sempio, che probabilmente non si conoscevano nemmeno di vista).
Anche le dinamiche, piuttosto inedite per la nostra giustizia, con cui si vorrebbero reimpostare le indagini sembrano espressioni della volontà di mitigare in qualche modo la cappa che copre l’intera Garlasco. Forse è proprio nella direzione di un “sicario improvvisato” che si dovrebbe guardare: chi ha cercato di creare una scena nel delitto in cui la vittima fosse stata colta da malore (magari per qualcosa che aveva mangiato), e poi ha tentato ossessivamente di ucciderla vicino alle scale nella prospettiva di simulare una caduta fatale?
Questo è un “film” meno surreale di quello “girato” dalla sentenza di condanna di Alberto Stasi, in cui uno scialbo bocconiano diventa un superuomo posseduto da qualche entità della Loggia Nera, in grado di volare da un punto all’altro della città nel giro di pochi minuti per uccidere la propria fidanzata, sbarazzarsi degli abiti imbrattati di sangue, guardare qualche video porno, riportare la bicicletta nera nell’officina del padre conservandone però i pedali sporchi di “sangue” (che non è tale, per chi ha avuto modo di informarsi un minimo sulla vicenda) e poi continuare impassibile a percorrere il vicolo cieco di un processo indiziario fino all’ultimo passo.
Per questo il caso va seguito anche al rischio di passare per un telerimbambito. Un “doppio livello” aleggia su ogni sequenza del delitto, dall’assassino alle indagini fino alle sentenze. Chi però vuole vincere con un facile moralismo (o snobismo, per tornare ab ovo), vada pure a leggersi i tweet di quello o quell’altro guru che gli spiega come tutto questo sia un'”arma di distrazione di massa”. Perché, al contrario, comprendere cos’è successo veramente a Garlasco il 13 agosto 2007 non è un passatempo per sartine o sciampiste, ma una battaglia essenziale del momento, poiché il “garbuglio” che esso rappresenta è un riflesso di tutto quello che non va nel porto nelle nebbie in cui il popolo italiano si è incagliato.