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Il dissenso dal dissenso: la querelle tra Roberto Calasso e Vittorio Strada

Nel giugno del 2013 sulle pagine del “Corriere della Sera” Roberto Calasso e Vittorio Strada rinfocolarono una vecchia polemica (risalente a più di trent’anni fa) riguardo la famigerata Biennale del Dissenso organizzata a Venezia nel novembre del 1977. Ad aprire le danze fu il patrono di Adelphi, che nel suo discorso di presentazione della Fondazione Brodskij (pubblicato dal “Corriere” col titolo di Brodskij a Venezia e i versi come acini d’uva, 7 giugno 2013) attaccò apertamente lo slavista, reo di averlo irritato all’epoca con un suo articolo “vile e beffardo” contro la manifestazione:

«[…] Era apparso un articolo di Vittorio Strada che mi aveva sommamente irritato. Vi si parlava della Biennale del dissenso come di una “festa di beneficenza” e la si assimilava a una manifestazione culturale in Uganda. Evidentemente non bastava essere vili, occorreva aggiungere qualche tocco beffardo. Eravamo seduti al caffè Florian e descrissi in dettaglio a Iosif l’articolo e i suoi sottintesi. Lui ascoltava come se stesse già covando qualcosa. Poche ore dopo ero a Milano e trovai sul mio tavolo la risposta di Brodskij a Strada, scritta nella sua migliore vena sferzante. La tradussi e la portai subito al Corriere della Sera, provvista di un cappello di poche righe in cui provavo a presentare Brodskij, allora pressoché ignoto in Italia. Nel frattempo Susan aveva avvertito Bob Silvers a New York del pezzo di Iosif. E, prima ancora che il “Corriere” lo pubblicasse, Bob mi telefonò per avere notizie. Ci eravamo già conosciuti a New York – e ammiravo le sue molte virtù, fra le quali il culto dell’attendibilità. Così provai a raccontargli tutto da capo: i presupposti della Biennale nella guerra in corso fra Pci e Psi, la pavidità italiana verso l’Unione Sovietica, eccetera. Bob ascoltava con attenzione, come se si trattasse dell’evento caldo del momento. Chiese ulteriori precisazioni. Risposi. Poi sentii una pausa, rotta da queste parole: “But who is Vittorio Strada?” […]».

La risposta di Vittorio Strada giunse una settimana dopo con una lettera di protesta pubblicata nella rubrica “Interventi e repliche” (Strada, Brodskij e il dissenso russo, 12 giugno 2013):

«Roberto Calasso, come chiunque altro, ha tutto il diritto di essermi ostile […]. Non vedo però la ragione perché io debba essere polemico con lui, neppure per contrastare affermazioni più insulse e gratuite che malevoli e scorrette, come mi toccò già fare in altri analoghi casi. La mia critica che tanto è spiaciuta a Calasso era ben più mite di quella di Solzenicyn che definì l’iniziativa veneziana un balagan (baraccone). Da noi in generale la pubblica atmosfera è già abbastanza incattivita e invelenita per aggravarla con simili piccole e marginali miserie. Se Calasso, che ignora troppe cose sulle mie posizioni, avesse fatto la centesima parte di quello che il sottoscritto a suo tempo ha fatto per il “dissenso” e dentro il “dissenso”, come suo attivo partecipe forse sarebbe più equilibrato e sereno. Quanto al mio atteggiamento verso Brodskij, rimando il lettore alla mia prefazione alla sua raccolta di versi pubblicata lo scorso anno dal “Corriere della Sera”».

Nella medesima sezione, il “Corriere” diede a Calasso la possibilità di ribattere:

«Non posso che confermare tutto quello che ho scritto. E il migliore sostegno mi viene dall’articolo stesso di Vittorio Strada (“Repubblica”, 8 dicembre 1977) a cui Brodskij rispondeva. Ne riporto qui le righe iniziali: “La festa di beneficenza è quasi finita. Una volta i poveri soddisfacevano i bisogni di carità delle anime buone. Oggi, a Venezia, i dissidenti dell’Est sono sottoposti a questa unica ‘strumentalizzazione’: quella di regolare le funzioni dell’organismo etico-politico di qualche benpensante”. E si potrebbe aggiungere una fondamentale domanda che viene posta nel corpo dell’articolo: “Che Venezia sia la capitale di un’Uganda [sic] culturale?”. Capisco comunque che, a proposito dell’Unione Sovietica e del dissenso russo, Strada pensi oggi cose molto diverse rispetto al 1977. Non è capitato soltanto a lui».

Ancor più irritato dalla risposta, il giorno dopo Strada invia altre righe di protesta (Strada e la Biennale del dissenso, 13 giugno 2013):

«Mi spiace che Calasso per rispondermi (“Corriere” di ieri) ricorra a un trucco grossolano, anzi a una vera e propria falsificazione, quando afferma che avrei cambiato idea sul dissenso rispetto al 1977. Non posso tacere. Egli ignora, ma l’ignoranza non è una giustificazione, che nel 1968 avevo subito un arresto a Mosca dopo che all’aeroporto, perquisendomi, avevano scoperto una lettera di Solzenicyn ed altro materiale dei dissidenti e che poi, per il mio pubblico appoggio al dissenso, per quasi due decenni mi fu negato il visto di ingresso nell’Urss, oltre a venire sottoposto ad attacchi sulla stampa sovietica. Calasso confonde volutamente il dissenso con la Biennale del dissenso: non partecipare a questa e criticarla non significa evidentemente non aderire e non appoggiare il dissenso dei Paesi dell’Est, cosa che ho fatto sempre. È curioso che, mentre esalta una manifestazione a pro del dissenso, Calasso si dimostri intollerante con chi dissente dalle sue opinioni e ricorra a metodi di deformazione delle cose e di diffamazione che mi ricordano quelli sovietici».

Infine, l’ultima stoccata è concessa a Calasso:

«Sono al corrente delle benemerenze di Vittorio Strada verso il dissenso russo. Tanto più, dunque, avrebbe dovuto rallegrarsi per un’occasione in cui si ritrovarono a parlare, fra gli altri, Iosif Brodskij, Andrej Sinjavskij, Leszek Kolakowski, Josef Škvorecký, György Konrád, Arthur London. Era proprio il caso di tacere e ascoltare, in quella Uganda sulla laguna. Non per nulla era una manifestazione che l’ambasciatore Nikita Ryjov tentò di bloccare fin dal mese di marzo, trattando con la Farnesina per conto del governo sovietico in modo “aggressivo e minaccioso” (cito dal resoconto di Furio Colombo sulla “New York Review of Books” del 14 luglio 1977)».

Per comprendere il senso di tale polemica è utile rifarsi alla ricostruzione di Simone Guagnelli, Rane, elefanti e cavalli. Vittorio Strada e la Biennale del 1977 (“eSamizdat”, 2010-2011/VIII, pp. 317-329), da cui abbiamo tratto le citazioni che seguono. Questa è una delle tante ferite rimaste aperte a causa dell’auto-assoluzione collettiva che l’intellighenzia italiana si concesse una volta crollata l’Unione Sovietica: anche se Vittorio Strada è sicuramente il meno colpevole tra i pensatori di sinistra (noto è il suo impegno nella divulgazione degli autori del dissenso), tuttavia l’atteggiamento tenuto all’epoca nei confronti della manifestazione è assurto a simbolo della viltà e dell’opportunismo di un’intera classe intellettuale.

Ricostruiamo per sommi capi come si svolse la vicenda: all’inizio del 1977 il presidente della Biennale Carlo Ripa di Meana decide che il tema della manifestazione sarà il dissenso sovietico. Gli attacchi alla sua scelta sono immediati, come ricorda lo stesso organizzatore nel volume celebrativo L’ordine di Mosca. Fermate la Biennale del Dissenso (Liberal, 2007, pp. 76-77):

«Di tutti gli attacchi, i più sorprendenti sono quelli del socialista demartiniano Paolo Grassi e dell’ex ministro delle Finanze, il repubblicano Bruno Visentini, presidente della Olivetti e della Fondazione Cini di Venezia. Ma le sorprese non si contano. C’è il semiboicottaggio della Rizzoli che dirà di non avere in magazzino nessuno dei libri richiesti dagli organizzatori della Biennale, e quello della Ricordi che negherà le partiture musicali, nonché l’indifferenza verso la manifestazione della Rai, presieduta appunto da Paolo Grassi, che nega la sede veneziana della Rai, Palazzo Labia. E l’elenco dei nomi, col passar dei giorni, si infittisce: arrivano i no del rettore di Ca’ Foscari, Feliciano Benvenuti e della Montedison Snia Viscosa, rappresentata da Paolo Marinotti. Insomma, pezzi pregiati della cultura, il Gotha dell’impresa, della politica, che nulla o poco hanno a che fare col Pci, s’inchinano davanti alle minacce di Mosca, spaventati probabilmente dalle possibili ritorsioni economiche dell’Urss».

Arrivano anche minacce di ritorsioni da parte dell’ambasciatore sovietico a Roma Nikita Ryžov, che interviene presso l’allora ministro degli esteri Arnaldo Forlani pretendendo la soppressione dell’evento. Il governo, reagendo contro questa ingerenza, si dimostrerà più coraggioso degli intellettuali che, al contrario, inizieranno ad attaccare la Biennale un attimo dopo il suo annuncio.

Per paradosso, inizialmente tra i difensori del “Dissenso” troviamo proprio Vittorio Strada, che nel marzo 1977 risponde da “Repubblica” a un articolo di Giulio Carlo Argan in cui l’allora sindaco di Roma definisce l’iniziativa della Biennale «una specie di originalissima Solgenitzin-parade [sic]» animata da «zelo da crocerossina» (È una Biennale o un mercato?, “l’Espresso”, 27 febbraio 1977). Il contributo alla manifestazione del celebre slavista, da anni impegnato, come abbiamo detto, nella divulgazione degli autori del dissenso sovietico, appariva più che scontato: fu quindi per molti una doccia fredda la smentita categoria di una sua partecipazione ai lavori apparsa su “Repubblica” il 17 novembre: «Non ho ritenuto opportuno aggregarmi a iniziative composite, cui pur partecipano anche persone che stimo». Strada tuttavia non si limita a prendere le distanze, ma in un secondo articolo (ancora su “Repubblica” di quel giorno) rincara la dose accusando gli organizzatori di stalinisme élargi, cioè “stalinismo in senso lato” («[I cori a favore della Biennale ricordano] certi articoli che esaltavano, che so, certi remoti congressi per la pace: chi non era per quei congressi (di staliniana memoria) era contro la pace») e infine giunge a definire la manifestazione “La Biennale di Montanelli” (Signori, il dissenso non deve essere un bene di consumo, “Repubblica”, 17 novembre 1977).

La rottura diventa insanabile proprio con l’articolo citato da Calasso (Certe assenze alla Biennale, “Repubblica”, 8 dicembre 1977), in realtà una risposta polemica alle dichiarazioni entusiastiche di Alberto Moravia («uno dei pochi intellettuali di sinistra ad aver aderito alla manifestazione», ricorda Guagnelli) sulla Biennale: «[Essa rappresenta] la conferma solenne e commovente del fatto che la letteratura dei paesi dell’Est e dell’Unione Sovietica fanno parte dell’area culturale occidentale». È per commentare sarcasticamente l’ingenuità di tale affermazione che Strada tira in ballo il famigerato “Uganda culturale”:

«Mi dicono che tempo fa in Uganda fu organizzata dalle autorità locali una Biennale sulla cultura italiana e che un letterato indigeno, a conclusione, abbia esaltato l’utilità di quel convegno, il quale avrebbe accertato che Roma è la capitale d’Italia e che gli italiani sono grandi consumatori di maccheroni e spaghetti. Che Venezia sia la capitale di un Uganda culturale?».

Infine Strada pone una pietra tombale sul lascito culturale dell’iniziativa: «Chiuso l’intervallo un poco rumoroso della Biennale, viene l’ora di tornare ad occuparsi con serietà analitica, e con solidarietà critica, del “dissenso”».

Seguirà la risposta di Brodskij (anch’essa rievocata da Calasso), la contro-risposta di Strada e il progressivo affievolirsi della diatriba – che col senno di poi non è comunque servito a ricucire lo strappo, tanto è vero che lo scontro tra l’adelphiano e lo slavista ha riportato alla luce esattamente gli stessi argomenti. Inutile proseguire oltre nella ricostruzione: i motivi per cui Strada ha deciso di disertare non saranno mai chiariti; colpisce tuttavia che, a distanza di oltre tre decenni, lo studioso abbia non solo messo in scena lo stesso rito auto-assolutorio (il che è sintomatico), ma addirittura abbia rivolto a Calasso l’accusa di stalinisme élargi, dopo aver riservato la stessa etichetta, come abbiamo visto, sia ai “coristi” della Biennale, sia allo stesso Iosif Brodskij, in due passaggi particolarmente disturbanti della sua replica al poeta:

«Che anche Brodskij si comporti così conferma l’idea che il regime sovietico lasci il suo marchio di fabbrica sui cervelli non solo dei suoi funzionari, ma anche, troppo spesso, dei suoi “dissidenti”» (Vittorio Strada risponde a Brodskij sul dissenso, “Corriere della Sera”, 13 dicembre 1977).

«Non vorremmo che, mentre respingiamo con fermezza una egemonia sovietica, i “dissidenti”, aiutati da forze politiche nostrane a noi troppo note, pretendessero a una loro egemonia e, irritati per l’insuccesso, si impancassero a profeti e inquisitori (Dissidenti e inquisitori, “Repubblica”, 13 dicembre 1977).

Considerando il trattamento riservato a Brodskij dai sovietici, sono accuse difficili da dimenticare. Forse Calasso è stato fin troppo indulgente a definire quell’epoca come un âge à jamais révolu

(da L’altra stampa della Russia, “Selezione dal Reader’s Digest”, ottobre 1978)
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