Il garbuglio di Garlasco: Gabriella Ambrosio è l’unica giornalista italiana ad aver analizzato i documenti processuali sull’omicidio di Chiara Poggi?

Ora che si sta riaprendo il processo per l’angosciante assassinio di Chiara Poggi a Garlasco, i giornali fanno a gara per pubblicare scoop che in verità la scrittrice Gabriella Ambrosio aveva già analizzato minuziosamente nel suo indispensabile Il garbuglio di Garlasco. Un perfetto colpevole e l’ostinata ricerca della verità (edito da Rubettino nel 2022).

Rispetto alla moda del true crime e anche alla cronaca giudiziara ridotta a pettegolezzo, questo volume rappresenta una vera inchiesta e andrebbe anche, se non soprattutto, dai “profani”, perciò ne consiglio caldamente l’acquisto. E, dal momento che non voglio rischiare querele, sarà questo il mio testo di riferimento qualora dovessi ancora di parlare dei fatti di Garlasco (e penso che accadrà spesso, anche a dispetto di ciò che vorrebbero trovare i miei lettori in queste pagine, perché al di là della verità dovuta alla vittima, nel caso in cui emergesse l’innocenza di Alberto Stasi il caso assurgerebbe a emblema della malagiustizia italiana).

Concentriamoci dunque su questi famigerati “scoop, non con intento polemico verso chicchessia ma solo con il proposito di comprendere cosa non funzioni nella “macchina giudiziaria” nazionale, in specie nel momento in cui il cortocircuito fra il “terzo” e il “quarto” potere (ci si riferisce, chiaramente, dall’apparato mediatico che nel XX secolo è venuto ad aggiungersi alla classificazione del Montesquieu).

In primo luogo, allo stato attuale i media italiani stanno rilanciando senza sosta la testimonianza di M.M. (indicherò solo con le iniziali i nomi “sensibili”, nonostante l’Autrice non abbia, giustamente, tali remore) che avrebbe visto la cugina di Chiara Poggi, l’esuberante S.C. (che all’epoca fece parlare di sé per il modo disdicevole con cui approfittò del clamore mediatico per farsi “corteggiare” da ambigui personaggi del sottobosco dello spettacolo) sulla famigerata “bicicletta nera” nei pressi della villetta dove è stata uccisa la vittima:

«Il giorno successivo al fermo di Alberto Stasi era spuntato un testimone. [M.M.], trentadue anni, operaio di una ditta di impianti di depurazione, nel primo pomeriggio era andato dal suo capo e gli aveva chiesto consiglio: “Io ho visto altro”. E gli aveva raccontato che di questo altro aveva parlato pure alla sua compagna due giorni dopo il delitto, davanti alla televisione che illustrava i sospetti sul fidanzato. Ma lei gli aveva decisamente consigliato di farsi gli affari suoi. In caso contrario, aveva minacciato, gli avrebbe preparato lei stessa la valigia e l’avrebbe messo alla porta.
Così [M.M.] per un po’ si era fatto gli affari suoi. D’altra parte, lui l’indagato neanche lo conosceva, né l’aveva mai sentito nominare prima d’allora; e poi si diceva che la vittima fosse morta più tardi dell’ora in cui lui aveva visto altro, e quindi forse quell’altro che aveva visto non c’entrava un bel niente col delitto. Ma non se l’era dimenticato. Vi si scervellava sopra, tant’è vero che era andato anche a raccontarlo a suo padre e al suocero. Poi, alla notizia del fermo di Stasi, aveva preso il coraggio a due mani e cercato consiglio nell’ambiente di lavoro.
[M.M.]. e il suo capo erano andati insieme a conferire con la responsabile amministrativa della ditta, ed era stata quest’ultima che gli aveva organizzato immediatamente un appuntamento in Procura. Lì, nel tardo pomeriggio di quello stesso giorno, [M.M.] raccontò alla PM Rosa Muscio che la mattina del 13 agosto, fra le 9:30 e le 10, mentre faceva il suo giro di lavoro, aveva incrociato in via Pavia una bicicletta che andava in direzione opposta alla sua, uscendo forse dalla via Pascoli, cioè dalla stradina del delitto. Pedalava alacremente su quella bicicletta una ragazza con un caschetto biondo, che a lui sembrava somigliasse tal quale a una delle due gemelle [cugine di Chiara].
La ragazza, di cui era in grado di descrivere anche l’abbigliamento, pedalava a zig zag e impugnava con la destra un arnese, seminascosto dal cestino anteriore, che a lui era sembrato qualcosa come un alare di camino con in testa una pigna.
“Vorrei stare fuori dal processo – aggiunse però [M.M.] –, il mio nome non dev’essere fatto. Sono sicuro che la ragazza che ho visto in via Pavia è la cugina bionda di Chiara Poggi. Non sono sicuro invece di averla vista uscire da via Pascoli”. Erano le otto della sera, il verbale fu sospeso per un po’. Fu riaperto un’ora più tardi. “Confermo tutto quello che ho detto finora – fece mettere a verbale [M.M.], ripetendo ancora per filo e per segno la sua storia –, e non ho altro da aggiungere”. Ma venti minuti dopo cambiò idea. E presentò le sue scuse: “Io sono venuto fin qua ma non ne sono certamente sicuro di quello che ho detto, chiedo scusa. Mi sono inventato tutto quello che ho raccontato perché sono uno stupido. Mi dispiace e non volevo farvi perdere del tempo. Scusate ancora”».

M.M. tuttavia confermerà di esser stato praticamente “obbligato” a ritrattare, in base a non ben specificate pressioni, in una conversazione telefonica col padre (perché ovviamente il cellulare testimone fu subito messo sotto intercettazione):

«”Ciao [M.] – lo chiamò il padre –, alla fine cosa ci sarà scritto sul verbale?”
“Che erano tutte cazzate, che tutto quello che avevo dichiarato me l’ero inventato, e che comunque chiedo scusa per averli intralciati nel loro lavoro, e che sono stato uno stupido e scusate ancora. Bona“.
E il padre: “Loro hanno fatto questo per proteggerti lo sai?”
“Può darsi”.
“Sì, sì, sono sicuro! Ma tu hai detto la verità, ne sei certo?
“Io ho detto quello che ho visto”».

Dopo questa testimonianza, in concomitanza con la scarcerazione di Stasi, qualcuno si era introdotto nella casa dove si erano trasferiti i genitori di Chiara Poggi (in attesa del dissequestro della villetta dove era stata uccisa la figlia) e aveva portato via il contenuto di un portafoglio appartenuto alla vittima.

Per quanto riguarda invece il nuovo nome su cui si stanno ora concentrando gli inquirenti, Andrea Sempio, di esso vengono ricostruite le dinamiche con cui è entrato a far parte del processo. Evidentemente non si è trattato di un fulmine al ciel sereno, considerando del resto che Sempio fosse già stato attenzionato nel 2016.

La Ambrosio ricapitola il percorso -accidentato e per niente “ortodosso”- con cui gli investigatori della difesa hanno ottenuto il DNA di Sempio trafugando una tazzina, il cucchiaino da caffè e una bottiglietta d’acqua su cui aveva posato le labbra, per poi riuscire a confrontarlo con il fenogramma del DNA rinvenuto sulle dita di Chiara (in particolare quello ricavato da un mignolo e da un pollice), che ha dato risultati positivi (quindici marcatori su sedici). Ed è in tale occasione, cioè nel capitolo dedicato a questa fase posteriore dell’inchiesta, che l’Autrice riporta la famosa intercettazione tra il Sempio e suo padre, presentata ora come assolutamente inedita dai media:

«La polizia giudiziaria è ancora in ascolto mentre Andrea parla in macchina col padre:
Ne abbiamo cannata una, che io ho detto che lo scontrino era stato ritrovato dopo che ero stato sentito, e tu hai detto che l’abbiamo ritrovato prima”.
E il padre: “Nella seconda volta o prima volta?”
“Io ho detto che l’abbiamo trovato dopo che ero stato sentito, già la prima volta. Ero stato sentito e poi l’abbiamo trovato”.
“Vabbè a me sembra la prima però non cambia niente… cosa ti
han detto?”
Un cazzo, comunque la versione è la stessa“.
Parlano dello scontrino di un parcheggio di Vigevano che ha la data del 13 agosto 2007, e che Andrea Sempio aveva pensato di consegnare agli inquirenti quattordici mesi dopo il delitto, per dimostrare di essere stato lontano quella mattina da Garlasco».

Questa potrebbe anche essere, semplicemente, una discussione dettata dall’ansia di non finire stritolati da un meccanismo ormai percepito come “kafkiano”, considerando che l’attuale imputato nel 2017 in un’intervista alla trasmissione “Quarto Grado” (sempre in presenza di suo padre, che confermava le sue affermazioni con zelo…) aveva espresso solidarietà nei confronti di Stasi («Da un certo punto di vista posso capire quello che ha passato lui, da un punto di vista umano posso dire che siamo vicini»), così come il suo stesso avvocato in un’intervista a “La Nazione” («Spero che trovino il vero colpevole, che non è assolutamente Andrea Sempio, ma che non è neanche Alberto Stasi, per quella che è la mia opinione personale»).

Mi sembrava necessario precisare questi punti; per il resto, non ho intenzione di trasformare il blog in una sorta di “Piergiorgio Truecrime, tuttavia è impossibile non discutere dell’affaire Garlasco, soprattutto per i risvolti (extra)giudiziari che una sua revisione comporterebbe.

Pubblicità

AVVERTENZA (compare in ogni pagina, non allarmatevi): dietro lo pseudonimo Mister Totalitarismo non si nasconde nessun personaggio particolare, dunque accontentatevi di giudicarmi solo per ciò che scrivo. Per visualizzare i commenti, cliccare "Lascia un commento" in fondo all'articolo. Il sito contiene link di affiliazione dai quali traggo una quota dei ricavi. Se volete fare una donazione: paypal.me/apocalisse. Per contatti bravomisterthot@gmail.com.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.