Il 16 marzo 1978, nella mazzetta di quotidiani che l’onorevole Aldo Moro portava sempre con sé, tra le copie insanguinate dalla mattanza della scorta spuntava anche quella famigerata prima pagina di “Repubblica” che riportava lo scoop sull’identità di Antelope Cobbler: Semplicissimo, è Aldo Moro, presidente della DC.
Ma chi era “Antelope Cobbler”? La risposta non è poi così “semplicissima”. Si trattava del nome in codice di un’importante personalità che avrebbe intascato una tangente da un milione di dollari per delle commesse militari, precisamente 18 aerei “Hercules” dalla Lockheed. Sì, è il famigerato Scandalo Lockheed onnipresente sulla stampa anni ’70 ma poi caduto repentinamente nell’oblio, tanto che la maggior parte dei millennial non l’ha mai nemmeno sentito nominare: col senno di poi, assomiglia molto a un ballon d’essai lanciato da oltreoceano per testare le reazioni dell’opinione pubblica italiana nei confronti di una Mani Pulite ante litteram.
Il nome di Moro (la cui posizione nello scandalo era già stata archiviata dalla Corte costituzionale qualche giorno prima del rapimento) ci finì di mezzo per opera di Henry Kissinger, che incaricò il suo entourage di far circolare la bufala dopo un duro scontro avuto a Washington con l’allora Presidente del consiglio democristiano.
Possiamo quindi ipotizzare che, qualora Aldo Moro fosse miracolosamente sopravvissuto al rapimento (o se magari esso non si fosse neppure verificato perché, sempre su questa linea “fantapolitica”, l’altro protagonista del compromesso storico Berlinguer fosse stato ucciso dai servizi segreti bulgari con quello strano “incidente” emerso solo negli ultimi anni), allora sarebbe scattato il Piano B di una Tangentopoli anticipata?
È noto che la storia non si fa con i “se”, ma a metterci la pulce nell’orecchio su tale scenario “alternativo” sono proprio le interpretazioni che all’epoca vennero date alla sospetta tempistica di certi “scandali”, riportate, tra gli altri, da Sergio Flamigni nel suo celebre volume La tela del ragno (Ed. Associate, Roma, 1988).
Per esempio, Mino Pecorelli immediatamente dopo il sequestro scrisse che
«il caso Lockheed e l’agguato di via Fani sono due episodi di stabilizzazione (sic) ad altissimo livello, episodi di solito trattati dalle reti internazionali dello spionaggio».
Sulla stessa linea, Giacomo Mancini, esponente di spicco del Partito Socialista, in un’intervista a “Panorama” del 28 marzo 1978 dichiarò che
«l’affare Lockheed è un fatto significativo; secondo me, è nato in America contro la DC, come ammonimento ad un partito che non obbediva più. Questa capacità di resistenza a forti persone internazionali deve farci rivedere tanti giudizi sulla Democrazia Cristiana».
Il “clima giacobino” che si respirava nelle redazioni viene evocato anche nel libro di Giovanni Fasanella Il puzzle Moro: sfortunatamente, per rivangare quelle vicende il giornalista non trova di meglio che interpellare Antonio Padellaro, il quale sorprendentemente stigmatizza «il crescendo di insinuazioni che miravano a delegittimare Moro da un punto di vista morale». Risum teneatis amici? Con tutto il rispetto, che l’animatore del giornalismo più manettaro e giustizialista degli ultimi anni si permetta di dar lezioni ai suoi colleghi di allora, è francamente ridicolo (e come se non bastasse, anche il giornale da lui fondato ha rilanciato la polemica su quel numero di “Repubblica” di quarant’anni fa). Senza aggiungere ulteriori commenti, invitiamo solo il lettore a fare un piccolo esperimento mentale, immaginando lo scempio che avrebbe consumato un “Fatto Quotidiano” dell’epoca se avesse avuto sotto le grinfie lo “Scandalo Lockheed”…
A rafforzare il sospetto su una “Mani Pulite” degli anni ’80 come ultima ratio contro un redivivo Moro, concorre un “dettaglio” rivelato da Fasanella nel libro appena citato (a pag. 191), ovvero un’affermazione risalente al dicembre 1975 dell’allora Ministro degli esteri britannico (il barone James Callaghan, laburista) durante una riunione a porte chiuse del “direttorio politico dei Quattro” (il comitato delle grandi potenze incaricato di “sorvegliare” l’Italia). Nell’incontro, in cui si auspicava una “dottrina Brežnev rovesciata” per riportare il Bel Paese negli angusti limiti imposti dai dettami atlantici, il Barone laburista a un certo punto si augurò la nascita di “un partito che spazzasse via tutta la spazzatura”, cioè che portasse a termine una radicale riforma morale della Democrazia Cristiana.
È singolare che una “speranza” molto simile venisse espressa anche nel “Comunicato numero 1” dei brigatisti del 18 marzo 1978. Come nota il succitato Flamigni:
«Nel testo del comunicato gli estensori pongono tra virgolette, menzionando la Dc, le parole “nuova” e “rinnovata”. Due termini usati in senso ironico, come se le Br fossero interessate a un vero rinnovamento della Dc».
Aggiungiamo che lo stesso giorno del comunicato (il “dettaglio” è registrato ancora da Flamigni), in un editoriale del Washington Post il rapimento di Moro viene descritto con toni ottimistici, come un’occasione d’oro per portare a termine finalmente quel “rinnovamento” tanto auspicato: «Questo delitto può far precipitare in Italia quel tipo di crisi dalla quale dovrà emergere uno stile di governo molto diverso».
Sì, è davvero una coincidenza incredibile: il Ministro degli esteri inglese, le Brigate Rosse e il “Washington Post”, tutti interessati a questo benedetto “rinnovamento della Dc”. Non vogliamo scadere nel complottismo, però non sembra che sia necessaria chissà quale cognizione dei futuribili per rendersi conto che, se Moro fosse morto di morte naturale, a quest’ora verrebbe anch’egli annoverato tra i “corrotti della Prima Repubblica”: accanto al “cinghialone” Craxi sarebbe forse spuntata una “Antilopetta”, e al posto dei telefilm sul 1992 e il 1993 avremmo probabilmente avuto quelli sul 79 o l’81. La morale alla fine è sempre la stessa: L’unico Moro buono è quello morto.