Il giullare di frodo (In Memoriam Dario Fo)

Lasciando da parte le solite banalità, che tanto potrete già leggere per ogni dove, vorrei ricordare Dario Fo attraverso uno dei contributi più intelligenti (e forse proprio per questo ignoto ai più) all’interpretazione dell’opera e del personaggio: il saggio di Carlo SusaIl giullare di frodo. Medioevo, cultura popolare e teatro politico nel Mistero Buffo di Dario Fo” (in A. Cascetta – L. Peja, La prova del Nove: scritture per la scena e temi epocali nel secondo Novecento, Vita & Pensiero, Milano, 2005, pp. 175-216).

È una lettura che, pur non risparmiando critiche all’artista, dimostra tutto sommato che egli fu più sintomo che causa della spaccatura tra cultura “alta” e “bassa” nel nostro Paese, e che di conseguenza nemmeno la sua attività teatrale, seppur orientata alla risoluzione dell’aporia (in senso politico con la manipolazione della “cultura del corpo” attraverso le categorie gramsciane di “egemonia” e “subalternità”, e in senso culturale col “carnevalesco” del Bachtin) riuscì nell’intento.

Se tuttavia Fo diede l’impressione di poter essere al contempo popolare e “alto”, ciò fu dovuto quasi esclusivamente alle sue straordinarie capacità individuali: tanto è vero che – per fare un esempio fra tanti – già all’epoca della messa in scena del Mistero Buffo, gli stilemi brechtiani passarono immediatamente in secondo piano rispetto al “corpo” (lato sensu) dell’attore. Come scrive infatti Susa: «Nel modello brechtiano di teatro epico, dovrebbero essere le parti introduttive – “stranianti” per il loro valore critico e razionale – a dare valore a Mistero buffo; in realtà, è accaduto l’esatto contrario: le tecniche della narrazione orale che, inizialmente, venivano utilizzate per far “rivivere” pezzi teatrali di un passato lontano, hanno via via contaminato e ravvivato i momenti teorici, al punto che, in molti casi […] il confine tra momenti teatrali e meta-teatrali non esiste» (allo spettatore attuale servirebbe quindi una didascalia per spiegare le didascalie…).

Non è l’unico paradosso sul quale Fo ha costruito la sua fortuna. Partendo dagli studi di Aron Gurevič, il quale ribalta la prospettiva bachtiniana dimostrando che «la categoria del grottesco medievale [è] il frutto non della cultura di un’unica classe, quella popolare, ma del dialogo tra cultura agraria e teologia cristiana promosso dalla Chiesa nell’ambito della sua straordinaria opera di evangelizzazione della masse contadine», il Susa riesce addirittura a dimostrare che il “giullare Dario Fo”, a prescindere dalle idee propugnate, promosse inconsapevolmente «un modello culturale pre-moderno e anti-progressista, di carattere sostanzialmente cristiano». Sempre seguendo Gurevič, Susa osserva anche che «le due culture distinte e contrapposte probabilmente esistevano nell’Unione Sovietica di Bachtin, in cui era presenta una cultura ufficiale di partito, autoreferenziale, e una cultura “reale” legata alle tradizioni popolare e alla vita di tutti i giorni».

La carica “rivoluzionaria” del teatro di Fo, contro i suoi stessi intenti, sta quindi tutta nel recupero e nella reinvenzione di motivi storico-culturali (il popolaresco, l’oralità, la corporeità, l’“intento catechetico” della moralità medievale) che andavano perdendosi nella contemporaneità italiana (ed europea, se consideriamo che all’assegnazione del premio Nobel contribuì anche la fortuna internazionale delle sue opere).

È probabile che solo in questo i posteri riconosceranno la grandezza dell’autore, indipendentemente dalle ideologie e dalle appartenenze politiche (a dimostrazione che anche la cultura egemone del momento, quella che abbandona i suoi “venerati maestri” un attimo dopo il decesso, rispetta il principio dell’ars longa vita brevis).

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