Fin dall’adolescenza ho sempre covato una strana passione per Il Giustiziere della Notte, un titolo che in realtà compendia oltre una decina di opere, tra i quattro sequel del film originale, il romanzo da cui è tratto (Death Wish, il quale ha avuto anch’esso un seguito, Death Sentence, che a sua volta ha ispirato un’altra -pessima- pellicola nel 2007), il remake del 2018 di Eli Roth nonché i numerosi rifacimenti-plagi confluiti in un vero e proprio genere (il vigilante film), anche a scopo parodico (di cui almeno tre nostrani: Il giustiziere di mezzogiorno, Un borghese piccolo e piccolo e Il giocattolo).
Non è per fare l’intellettualoide se in questo caso giudico il romanzo di Brian Garfield del 1972 superiore alla trasposizione cinematografica di Michael Winner: il motivo è che sul grande schermo la psicologia dei personaggi, le elucubrazioni filosofiche e i momenti di introspezione finiscono inevitabilmente convogliati nel susseguirsi di accadimenti e azioni (in ossequio al principio faustiano Im Anfang war die Tat). Il romanzo invece appartiene a un’altra dimensione (che l’Autore sembra capace di esplorare), sia laddove la brutalità degli eventi rispecchia la brutalità dei pensieri (anche se qui l’aggettivo non va inteso solo in senso di “violento” o “animalesco”), sia nei momenti in cui Garfield indugia in considerazioni sull’umanità e i rapporti sociali talmente semplici da risultare, etimologicamente, essenziali.
Non che nella pellicola si perda completamente tutto questo (del resto un minimo di limatura è inevitabile, ché altrimenti non lo chiameremmo nemmeno “adattamento”); in alcuni casi la schematicità della trama rimanda comunque a strutture concettuali più complesse, come nell’eterna dialettica tra città (New York) e campagna (l’Arizona, in cui l’architetto Paul Kersey acquisisce il mezzo elettivo per diventare giustiziere), nonché l’annoso problema della gestione del crimine in una società che si vuole “libera” e “aperta”.
Ad ogni modo, è sconfortante che nulla di ciò abbia mai suscitato un dibattito degno di tal nome: alla fin fine l’unica riflessione interessante, seppur “complottistica”, emersa dalla produzione “in serie” di vigilante film riguarda il sospetto che dietro certe suggestione montate ad arte si celasse una nemmeno tanto sofisticata operazione di guerra psicologica per convincere le masse della necessità di “privatizzare” anche il settore della sicurezza (col senno di poi paranoia poco giustificata, se pensiamo solo come la politica di “tolleranza zero” adottata da Rudolph Giuliani non servì in alcun modo a promuovere ronde, servizi di vigilanza o comitati paramilitari locali, semmai ridiede lustro alle forze dell’ordine e su di esse imperniò il nuovo corso all’insegna della legge e dell’ordine).
Tuttavia, c’è un punto che sfugge totalmente alla versione in celluloide ed è consegnato esclusivamente al romanzo: la polemica, velata e a tratti satirica, di Brian Garfield nei confronti della borghesia ebraica americana (od “occidentale” tout court). Infatti, se nel film il personaggio interpretato da Charles Bronson è un architetto non molto distante dalla figura dell’americano medio (seppur newyorchese, laureato e di simpatie progressiste), nel romanzo il protagonista è un commercialista di nome Paul Benjamin che viene sbalzato fuori dal suo milieu (i Kreutzer, i Bernstein, i Rosen…) e diventa “giustiziere” nel momento in cui, dopo aver sentito il sermone del rabbino al funerale della moglie, si rende conto che ai criminali “bisognerebbe dar la caccia come a cani rabbiosi e sparargli appena a tiro”, che la maggior parte degli esseri umani “non meritano di vivere” perché “non hanno nulla da offrire oltre alla puzzolente e prosaica esistenza dei loro ignobili gusci vuoti”, che “le società permissive sono come i genitori permissivi, producono demoni”, che “bisogna avere la volontà di combattere”, che tutte le cause del buon democratico come il sostegno alle associazioni sportive di quartiere, ai comitati di beneficienza o a iniziative tipo “Tenete pulita la vostra città” sono roba da “deficienti benintenzionati”.
La collana di sparate reazionarie di cui è costellato il libro è l’esatta antitesi dei “valori” rappresentati dalla borghesia ebraica delle grandi città (e non solo). Dato che il tema è assolutamente trascurato, non tanto per distrazione (l’intenzione parodica è così netta da sfiorare la chutzpah), è forse utile ricordare che l’Autore parla proprio in veste di appartenente -per estrazione etnica e sociale- a tale comunità, e la sua distruzione sistematica dell’anima bella del progressismo kosher non può in alcun modo essere ridotta ad “antisemitismo” (o Selbsthass).
Ad accorgersi di tale aspetto finora è stata solo la rivista ebraica “Forward” (The Secret Jewish History Of ‘Death Wish’, 26 agosto 2019), seppur in termini meramente “identitari”: il protagonista del romanzo è ebreo, il regista dell’adattamento è ebreo (seppur abbia rimosso qualsiasi traccia di Jewishness), i produttori sono ebrei (a Hollywood? incredibile!), nel terzo episodio della “serie” (dove un Bronson abbastanza imbolsito comincia a mitragliare chiunque) le gang adottano simbologie naziste giusto per far incazzare ancor di più il prossimo, eccetera eccetera. Nessuna riflessione su una critica implicita che obiettivamente conserva ancora tutta la sua forza, se si pensa che “Forward” ammette con irritante candore che, una volta raggiunto l’apice della violenza nei centri urbani, gli ebrei, potendoselo permettere, non hanno fatto altro che “fuggire” versi i quartieri residenziali. Cosa che per l’appunto Paul Benjamin rifiuta, prendendosi la responsabilità, non solo individuale ma anche sociale, di “fare piazza pulita”.
Alla fine la rivista ebraica giunge a parlare del recente (2018) remake dell’enfant prodige Eli Roth, tacciandolo di aver confezionato una “fantasia bianca apertamente fascista” nel voler riportare sulle scene l’archetipo del “Giustiziere”. Questa critica, oltre a essere ingiusta, è anche fuorviante, poiché semmai la colpa di Roth sarebbe quella di aver snaturato completamente il senso del romanzo, rimuovendo per giunta gli elementi “controversi” della prima resa cinematografica.
Tanto per dire, nel rifacimento di Roth il protagonista (un legnoso e a tratti persino abulico Bruce Willis, non molto adatto alla parte) è un chirurgo di Chicago che vive in un villone, è pieno di milioni e casseforti e orologi, si gode ogni white privilege possibile (anche il fatto di poter disprezzare i bianchi plebei, che gli affibbiano il nomignolo Lake Shore Drive – la strada dei ricconi-, tralasciato dai doppiatori italiano in nome dell’Americanum est, non legitur) e non ha idee politiche compromettenti, il che corrisponde alla volontà del regista di eliminare qualsiasi elemento di critica sociale, a partire dal fatto che i sensi di colpa del nuovo Paul Kersey si riferiscono solo all’aver fallito nel proteggere la sua famiglia, perché dalla sua prospettiva di “bianco privilegiato” il crimine dilagante in ultima analisi continua a rappresentare un problema solo nella misura in cui è suscettibile di tangere i suoi “privilegi”.
Ci sono del resto diverse “stonature” nella trama: per esempio il fatto che i topi d’appartamento siano -non mi dire- tutti bianchi, e persino di “buone maniere” (addirittura si mettono a litigare tra loro quando uno di essi vorrebbe violentare la figlia di Willis/Kersey, e sembrano quasi costretti a diventare violenti nel momento in cui le vittime reagiscono). Oppure che a far da contraltare al protagonista non ci sia il genero smidollato e incapace di reagire, ma il suocero texano che si mette subito a sparare a caso: dettagli come questo contribuiscono a una sorta di infantilizzazione del personaggio, facendolo quasi diventare una caricatura dell’originale. Per non dire della scena in cui la migliore amica della figlia va in ospedale a leggerle Milton Friedman mentre è in coma…
Il finale poi scade nel ridicolo: Bruce Willis, dopo aver accumulato un arsenale nel suo villone, riesce a uccidere il pianificatore dell’assalto in modo “legale”, adempiendo al compito di “difendere la sua famiglia come farebbe un vero uomo”. Non si capisce, come al solito, se registi e sceneggiatori siano o troppo stupidi o troppo furbi: la morale qui sembra quasi condannare la “giustizia bianca” (una volta era “borghese”) che si ammanta di “legge e ordine” ma non appena viene sfiorato il suo orticello rivela la sua faccia vendicativa, disumana e anarchica.
A prevalere sono solo le banalità da film d’azione, le sparatorie a caso e le mitragliate schivate per magia, come a voler ammettere implicitamente che il pubblico americano, incapace di pensare, non può aver nulla di meglio. Il sospetto di un messaggio cripto-sinistrorso comunque rimane, anche solo nella riduzione di un carattere complesso a una macchietta, buona a far eccitare la “spazzatura bianca” di turno.
Per giunta va osservato che da “sinistra” non mancherebbe la possibilità di proporre un rifacimento intelligente dell’opera attraverso il fatidico senno di poi, ovvero le conseguenze politiche del senso di colpa della borghesia ebraica, sfociate nella nascita del movimento cosiddetto “neoconservatore”, il quale ha convogliato gli intellettuali ebrei newyorchesi di simpatie ultraliberali à la Irving Kristol verso una destra aggressiva, amorale e “securitaria”. Sarebbero però chiedere troppo, in un contesto dove l’intellighenzia si limita a rimasticare idee che non ha nemmeno compreso per monetizzare il consenso di un pubblico che disprezza.