Il greco come lingua elettiva

Se dovessi classificare le lingue da una prospettiva “emozionale”, senza dubbio al primo posto dovrei annoverare il greco, soprattutto per le sensazioni che è in grado di offrire ponendo l’ascoltatore occidentale al cospetto di talune espressioni che, ingigantite o storpiate fino al parossismo nelle diverse tradizioni culturali, vengono infine restituite alla dimensione quotidiana.

Si tratta di una particolarità che diletta e sconvolge allo stesso tempo, e la cui portata mi pare sia stata colta nientedimeno che da Giorgio Agamben, come emerge da un un aneddoto che ama spesso raccontare: un giorno lo studioso David Flusser, mentre passeggiava ad Atene meditando sul concetto di pistis, si imbatté in una scritta, Τραπεζα της πίστεως [“Trapeza tis písteos”] o, a seconda delle versioni riportate dallo stesso filosofo, Τράπεζα εμπορικές πίστεως [“Trápeza emporikés písteos”], corrispondente all’insegna di una banca di credito commerciale, e da ciò dedusse che la pistis, la “fede”, non è altro che “il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo” (cfr. la stessa storia nel libro Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, 2000, p. 106 e nell’articolo Se la feroce religione del denaro divora il futuro, “Repubblica”, 16 febbraio 2012).

Se il filosofo avesse seguito le orme di Flusser, chissà quali importantissime intuizioni avrebbe tratto dalle scritte sui muri o dai discorsi dei bottegai per i vicoli di Atene: magari che αποκαλύπτω [“apokalypto”] vuol dire anche “spiattellare” e che dunque in Grecia persino un pettegolo può essere “apocalittico”. Ovviamente si fa per celia: tuttavia sono convinto che ancora oggi ci risparmieremmo tanti discorsi inutili se intellettuali, filosofi e persino teologi fossero costretti a seguire un corso obbligatorio di greco moderno in loco.

Quando, per esempio, si scopre che l’αγγελία è un poco angelico annuncio della cancellazione del tuo volo, o che il μάρτυρας è il tuo vicino che in tribunale testimonia contro di te, passa un po’ la voglia di strologare. Lo stesso discorso vale per gli αδελφοί [“adelphi”] ridotti al trascurabile rango di fratelli carnali (e che il rotacismo αδερφέ [“aderphé”] ha trasformato nel corrispettivo del bro americano), αλήθεια [“alithia”] che invece di ispirare conturbanti approfondimenti etimologici si limita a significare la “verità” come avrebbe potuta intenderla Caterina Caselli se fosse stata greca e avesse cantato Η αλήθεια με πονάει το ξέρω [“I alíthia me ponái to xéro”]. Tralascio espressioni come αποστολή, εικών oppure λειτουργία per non diventare blasfemo (tanto il discorso s’è capito).

Per farla breve, è forte la tentazione di riconoscere al greco una potenza che tuttavia non si è in grado di esplicare. Sarebbe facile cadere nell’equivoco delle “origini” (molto più deleterio di quello delle “radici”) e scoprirsi tutto a un tratto “neoclassici”, cioè contraffattori.

Su tale malinteso mi pare abbia detto bene Alfred Kallir:

«È errato sostenere che le lingue più antiche, essendo “più vicine” ai primordi della parola, contengono le radici linguistiche più aderenti alla natura […]. Ogni proiezione semantica, linguistica o nella scrittura, avviene o può avvenire ex novo in qualsiasi momento. La forza dell’inconscio è sempre presente e sempre creativa» (Segno e disegno. Psicogenesi dell’alfabeto [1961], Spirali, Milano, 1994, p. 76).

C’è tuttavia un non-so-che il quale alimenta l’entusiasmo e va al di là di qualsiasi “semi-cultura”: al contrario, non esiterei a definire il mio approccio nei confronti del “culturale” come nichilistico. In effetti credo di aver affrontato il tema da una prospettiva sbagliata, come se le mie sensazioni avessero qualcosa in comune con quelle di Agamben: no, io sto a un livello molto più infimo, vicino al bestione di vichiana memoria. Non mi entusiasma nemmeno l’idea di una lingua universale o primordiale, tanto che quando ho scoperto che “figlia” in persiano si dice دختر, pronunciato quasi come l’inglese daughter, non mi sono lambiccato troppo il cervello sulla comune radice proto-indoeuropea che collega i due termini (anche perché poi su بد, bad, cioè… “cattivo”, mi sarei ingannato).

Quel “qualcosa” a cui mi riferisco è sempre la potenza, l’energia (ενέργεια) della parola, che non scaturisce né da una presunta sacralità, né dal valore storico o da altri fattori esclusivamente “culturali”. Del Λόγος, insomma, rimane quel “qualcosa”, persino quando viene ridotto al pour parler: per fare un esempio: tutto il pensiero di Carl Schmitt non potrebbe essere ridotto a una semplice espressione come basileismo? Questo solo per testimoniare (μαρτυρώ) quanto potenziale di “egemonizzazione” ancora conserva tale lingua. Però qui avverto il rischio di cadere nel teleologismo o in qualche assurda teoria che vorrebbe individuare le “basi naturali” dell’espressione.

Infatti per non fare la figura dell’allocco ho sempre affrontato la “questione greca” dal punto di vista politico-culturale, eludendo il misticismo dell’ossessione per le “origini” con il classico e un po’ retrivo τόπος (ancora!) delle “radici”. Tuttavia, torno a ripetermi, il greco ha sempre un qualcosa in più: tra il silenzio primordiale e la Torre di Babele, questa lingua detiene un posto di preminenza, e col tempo forse si dimostrerà una àncora di salvezza dal nichilismo.

Seguendo tale prospettiva vorrei concludere con un esempio finalmente più consono alla mia sensibilità: Il colosso di Marussi di Henry Miller. Un romanzo che illustra l’idea della Grecia “concepita per l’eternità”: se Miller avesse composto lo stesso libro in Italia, probabilmente lo avrebbe riempito di cliché e banalità come fanno da secoli gli anglosassoni. Nell’Ellade ha invece trovato ciò che non si può ridurre a una ridicola mania, an unappeasable lust for beauty, passion, love, e tutto quello che nel testo appare stereotipato, idillico o di maniera è semplicemente dovuto alla mancanza di una qualsiasi “cultura” (lo dico senza liricizzare troppo l’uso del corpo come strumento di conoscenza). In ogni caso, proprio per non delirare, mi sembra che restare a un livello puramente linguistico sia già un buon espediente (magari tenendo in considerazione anche le indicazioni del Kallir di cui sopra).

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