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Il kairos della terra. La filosofia e la questione del tempo

La concezione del tempo nella storia del pensiero occidentale è sempre stata contraddistinta da una sorta di dualismo mai completamente esplicitato, rappresentato da movimenti ciclici di interiorizzazione e, se così si può dire, esteriorizzazione.

Tale alternanza è osservabile sin dai primordi della filosofia, quando Platone, pur conservando una concezione mitica e proto-meccanicistica del tempo come ordine misurabile del movimento, incorpora la problematizzazione parmenidea propiziando l’identificazione tra tempo e coscienza avanzata da Aristotele; per opera dello stesso Stagirita, poi, la “numerabilità” verrà trapiantata dalla sfera celeste all’animo umano, in un primo tentativo di bilanciamento delle due tendenze.

Con l’avvento del cristianesimo, si passa a una sempre più marcata interiorizzazione (il tempo come estensione dell’anima in Agostino) che comporta una nuova concezione del chronos: seppur conservando alcune caratteristiche della mentalità mitico-meccanicistica (la ciclicità, il rinnovamento delle origini attraverso il culto), il pensiero cristiano contempla ora la possibilità della consumazione del tempo.

Se nel Medioevo le diverse concezioni giunsero a una sintesi proprio in base a tale assunto (che conferiva al divino una potestà assoluta sul secolo), con la rivoluzione scientifica del Rinascimento la dicotomia riemerge nuovamente: al meccanicismo, depurato ora da ogni influsso mitizzante, si contrappongono varie tendenze filosofiche tra le quali l’empirismo (che ribadisce il carattere psicologico della temporalità) e l’idealismo leibniziano.

Immanuel Kant proverà a ricomporre l’ennesima frattura, ma la sua rappresentazione del tempo come forma a propri dell’intuizione empirica e base dell’oggettività del conoscere non riuscirà a convincere né i “metafisici” né tantomeno gli “scienziati”.

Il dilemma si protrarrà quindi nei secoli successivi, come stanno a dimostrare la polemica di Henri Bergson contro la spazializzazione del tempo o la divisione operata da Martin Heidegger tra tempo autentico e inautentico.

È difficile non intravvedere in questo percorso un’influenza delle condizioni materiali in cui si è configurata la misurabilità del tempo: da una primitiva “domesticazione” messa in atto dalle antiche comunità centralizzate si passa a una misurazione sempre più esatta e disponibile, originata da una felice congiuntura nella società europea tra condizioni materiali (sovrabbondanza di manodopera, emersione di una borghesia imprenditrice) e culturali (incontro tra sapere pratico e sapere matematico) che a partire dal XVII secolo sfociò nella diffusione degli orologi portatili.

Come ricorda Carlo M. Cipolla in uno dei suoi tanti indispensabili volumi  (Le macchine del tempo, Il Mulino, 1981, p. 29),

«il parossismo dell’interesse per l’orologeria da parte degli uomini di studio […] fu raggiunto sul Seicento, quando la Rivoluzione Scientifica esplose in tutto il suo vigore. Prevalse allora una concezione meccanicista dell’Universo […]. Anche Domineddio non fu risparmiato [da questa Weltanschauung meccanicistica] e fu spesso raffigurato come un orologiaio d’eccezione».

Nel XVIII secolo si giunse a una produzione in serie che preannunciava l’imminente rivoluzione industriale: è significativo che nel 1770 persino Voltaire abbia aperto una fabbrica di orologi a Ferney. I pensatori europei successivi tuttavia abbandonarono progressivamente tale approccio naïve ed espresso un’angoscia sempre più crescente nei confronti dell’oggettivazione del tempo, che da ideale scientifico si imponeva come conseguenza necessaria dell’industrializzazione e della produzione di massa.

Il concetto di tempo inautentico proposto da Heidegger al quale si è accennato sopra risente delle condizioni storiche e materiali nel quale venne a svilupparsi: identificato appunto come “databilità” o “tempo pubblico”, esso è il tempo dell’esistenza banale, rappresentato come successione infinita di istanti. A un certo punto anche l’orologio fa capolino in Essere e tempo, come misuratore del tempo mondano, il tempo-ora composto da una successione di “ora” che comprime e livella la «costituzione estatico-orizzontale della temporalità».

È interessante osservare come l’espressione Jetzt-Zeit, che potrebbe banalmente venir tradotta come “attualità” o “epoca attuale”, venga resa invece come tempo-ora sia da Pietro Chiodi (nella traduzione di Sein und Zeit) che da Renato Solmi nella sua versione delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin.

La coincidenza è evidenziata da Giorgio Agamben, che su di essa imbastisce la contrapposizione tra una connotazione negativa (Heidegger) e una “messianica” (Benjamin), la quale approssima il Jetzt-Zeit al “tempo di ora” (ho nyn kairós) paolino (cfr. Il tempo che resta, Bollati Boringhieri, 2000, p. 133).

Nell’epoca degli orologi atomici, in cui vengono poste le basi per una precisione assoluta nella misurazione del chronos, è forse una interiorizzazione messianica del tempo l’ultima risposta filosofica possibile al dilemma? La lettura di Agamben, che integra e sviluppa quella di Jacob Taubes de La teologia politica di san Paolo con intuizioni ancora più radicali, pone il “tempo di ora”, ovvero il tempo della fine, come il resto che rimane tra la durata del mondo come creazione e l’eternità intemporale del mondo che viene dopo la fine di esso:

«Vi è, innanzi tutto, il tempo profano – a cui Paolo si riferisce di solito col termine chronos – che va dalla creazione all’evento messianico [la resurrezione di Cristo] […]. Qui il tempo si contrae e comincia a finire: ma questo tempo contratto – cui Paolo si riferisce con l’espressione ho nyn kairós, “il tempo di ora” – dura fino alla parousía, la piena presenza del messia. […] Il tempo messianico – ho nyn kairós – non coincide né con la fine del tempo e con l’eone futuro, né col tempo cronologico profano, senza però essere esterno rispetto a quest’ultimo. Esso è una porzione del tempo profano, che subisce una contrazione che lo trasforma integralmente […] Il tempo messianico [è] come una cesura che, dividendo la stessa divisone tra i due tempi, introduce in essa un resto, che eccede la divisione» (G. Agamben, Il tempo che resta, p. 64).

Nonostante il gergo agambeniano possa apparire criptico (e l’argomento affrontato un semplice pretesto per polemizzare con la teologia cattolica), la sua lettura potrebbe “acquistare verità” qualora la scienza caricasse sulle proprie spalle l’incombenza di esaurire il tempo.

In tal caso noi vivremmo un tempo simile a quello messianico (anche in forma di scimmiottatura) e la post-storia non sarebbe più un’ipotesi scolastica, ma una realtà di fatto: tuttavia le risposte irrazionalistiche e nichilistiche non sarebbero che una dimostrazione dell’ennesimo disorientamento della filosofia nei confronti di ciò che essa definisce “tecnica”.

(Nicolas II Larmessin, “Habit d’Orlogeur”)

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