Ormai la geopolitica sembra diventata l’unica dottrina in grado di dare un senso ai conflitti scoppiati dopo la fine del mondo bipolare: la sostanza degli scontri tra le grandi potenze, sostengono gli esperti della disciplina, non sarebbe mai di natura ideologica, se non incidentalmente; la loro ispirazione sarebbe sempre “materiale”, o comunque basata sulla necessità di accaparrarsi risorse o dominare il mondo (necessità che ovviamente può esser mascherata con l’ideologia). A partire da tale presupposto, si delinea l’inimicizia tra Russia e Stati Uniti come un elemento di instabilità perenne su qualsiasi scacchiere internazionale, almeno -ovviamente- fino a quando una delle due potenze non avrà sopraffatto l’altra.
Questo “modello” non riesce tuttavia a spiegare la condotta così irregolare di Washington, né tanto meno quella di Mosca, dopo il crollo del sistema internazionale basato sulle sfere d’influenza. Ai tempi della Guerra Fredda, del resto, sembra che gli Stati Uniti, più che motivi geopolitici, abbiano seguito nei confronti del “blocco” avversario il classico principio del divide et impera, per esempio facendo leva su Pechino per mettere in difficoltà l’Unione Sovietica.
Nel panorama post-1989 questo rodato strumento imperiale sembra diventato prassi: quando ai nostri giorni un Presidente americano (o per meglio dire i poteri e gli interessi che rappresenta) vuole indebolire Mosca, fa peso sulla Cina; se all’opposto fosse interessato a ridimensionare Pechino, cercherebbe di apparire più “distensivo” verso la Russia. Tale schema interpretativo sembra in effetti reggere alla prova dei fatti: lasciando da parte la Prima guerra del Golfo, dettata dall’euforia mondialista oltre che da una mentalità da robber baron del nuovo millennio, si nota come gli attori politici americani susseguitisi negli ultimi trent’anni abbiano bilanciato, o per meglio dire sbilanciato, ogni nuovo ordine sobillando le antipatie dei propri contendenti.
Per sommi capi, si può pensare all’attivismo filo-cinese dei Clinton (il quale ha prodotto numerosi scandali tutti insabbiati, a partire da quel Chinagate che la maggioranza dell’opinione pubblica internazionale non ha mai nemmeno sentito nominare) che non a caso si è abbinato benissimo alle destrutturazioni balcaniche e caucasiche in funzione anti-Russa; oppure all’amicizia tra Bush e Putin, che ha concesso a Washington di fare praticamente quel che voleva in Asia Centrale per diversi lustri, con un approccio tuttavia snervante che ha infine costretto Mosca a non far più “buon viso a cattivo gioco”. Pensiamo poi a Obama, che come Nobel per la Pace è andato avanti a devastare quell’area che gli yankee chiamano MENA (Middle East and North Africa), fomentando guerre civili anche in Paesi che una volta erano stati alleati (Siria) o addirittura lo erano ancora (Turchia), ponendo infine le premesse per l’attuale crisi ucraina: se durante la sua presidenza l’orientamento filocinese non è stato così marcato è perché tutto sommato il suo contributo, non solo politico ma anche umano, è stato insignificante. Potremmo anche soffermarci su quanto fatto da Trump, ma è storia ancora troppo recente per non esser nota: massima tensione con la Cina, distensione totale con la Russia, al limite da essere considerato un agente di Mosca.
Questa schema sembra dunque reggere, ma appunto è soltanto uno schema, che non rende la complessità del reale: la stessa obiezione si potrebbe però rivolgere contro qualsiasi conclusione geopolitica che parta da presupposti come “Stati Uniti e Russia saranno in guerra perenne indipendentemente dalle ideologie”, oppure che creda che una fantomatica “Eurasia” sia il destino manifesto di almeno un paio di continenti. Trovo ingenuo, oltre che miope, escludere completamente il “fattore umano” nella valutazione dei rapporti internazionali o addirittura fare di questa rimozione la condizione di possibilità per qualsiasi lettura basata sul realismo politico: come se anche la storia, oltre che la vita, fosse “un racconto narrato da un idiota, pieno di rumori e strepiti che non significano nulla”.
Penso che, al contrario, il fattore ideologico sia essenziale per comprendere (e prevedere) i conflitti che scoppieranno. Proviamo allora a seguire una lettura tutta ideologica dei rapporti tra Mosca e Washington dopo la fine del bipolarismo. Partiamo dal presupposto che le élite occidentali, e in particolare quelle americane, non seguano principi e criteri univoci: non esiste alcun “angelo della geopolitica” che obbligherebbe un Clinton o un Bush a “fare la scelta giusta”. Semmai esiste un “angelo dell’ideologia” (ma forse non è proprio una creatura paradisiaca…) che spinge l’essere umano a seguire le proprie illusioni e fantasie fino in fondo, fino al Fiat iustitia et pereat mundus.
Per rimanere nell’attualità e non dilungarsi troppo, era assolutamente prevedibile che Biden (ricordo ancora che nominando i presidenti americani mi riferiscono sempre al sistema di potere da cui sono espressi) avrebbe “combinato qualcosa” contro Mosca; eppure al contempo non sovviene che il suo predecessore abbia fatto chissà quali concessioni a Putin per scongiurare un’invasione dell’Ucraina: semplicemente è come se il conflitto dal 2016 al 2020 fosse stato “archiviato” per motivi non geopolitici.
Anche la stampa mainstream, del resto, aveva -ridicolmente- addotto ragioni non geopolitiche (ma nemmeno politiche), per spiegare l’inaspettata distensione, ipotizzando un’affinità elettiva fra Donald e Vladimir, ispirata dalla complicità patriarcale tra maschi alfa boomer. L’ipotesi, seppur espressa attraverso i dogmi del politicamente corretto occidentale, non era tuttavia del tutto campata in aria, anche se per affrontarla in modo completo andrebbe osservato l’altro lato della medaglia, cioè l’avversione di una parte del potere occidentale nei confronti della Russia attuale.
Perché alcune élite odiano in maniera così viscerale Putin e tutto ciò che rappresenta? Anche noi, per fare il verso a New York Times et similia, potremmo addurre un risentimento nei confronti del Padre, la femminilizzazione od omosessualizazione delle democrazie europee e americane, un agire isterico da castrati. Eppure anche questo renderebbe il discorso inconcludente, sia per il tenore delle argomentazioni, sia per la mancanza di una pars costruens. Nel senso che esistono motivazioni più profonde per cui una parte dell’élite preferirebbe una guerra nucleare in Europa piuttosto che un conflitto convenzionale in Asia.
E il problema è esattamente “culturale”. Negli Stati Uniti c’è chi ancora considera l’Europa, anche nelle vesti di “Venere”, come la fonte (non solo etnica) a cui il Nuovo Mondo dovrebbe abbeverarsi: una volta sottomessa e trasformata in “giardino” (o “cortile”) con la Seconda Guerra Mondiale, nel dopoguerra almeno a livello istituzionale è sorto un sentire comune nei confronti del Vecchio Continente. Tuttavia negli stessi anni avanzava un’altra sensibilità, vogliosa di rifare il mondo daccapo, di slegare l’uomo da qualsiasi radice e renderlo finalmente “cittadino globale”. Senza escluderne la buona fede, non si può negare che i propugnatori di tale ideologia (che potremmo identificare, solo per intenderci, come “sessantottini”) non abbiano poi dato alcun contenuto positivo ai propri propositi, ma si siano limitati a insediarsi ai vertici delle istituzioni con intenti distruttivi.
Ora, se i Kennedy e i Carter potevano ancora riconoscere l’Europa come “radice”, i Clinton-Obama-Biden sono invece imbevuti di una nuova mentalità, assorbita anche per osmosi generazionale, la quale semmai gli impone di vedere il “Vecchio Mondo” nel migliore dei casi come agnello sacrificale, e nel peggiore come ostacolo da eliminare.
Per questo le guerre nei Balcani e in Europa orientale, in Medio Oriente e nell’Africa settentrionale hanno avuto un sostrato più ideologico che geopolitico: esse sono servite a favorire una cultura “altra” rispetto a quella europea-occidentale (o “bianca”, etichetta che ora va per la maggiore). In questo agire sono confluiti infiniti motivi che hanno concimato le culture rivoluzionarie del dopoguerra, quelli che generalmente finiscono sotto l’etichetta di “marxismo culturale” e che vanno dal terzomondismo al post-modernismo.
In questo contesto di spettri, suggestioni e affabulazioni, la Cina, come l’islam fondamentalista, ha assunto il ruolo di contraltare “esotico” a una Kultur che deve essere decostruita, superata o abbattuta. Non serve chissà quale inchiesta per comprendere l’intimo legame tra i vari travestiti accorsi alla corte di Biden in veste di consiglieri e i vecchi arnesi della contestazione che organizzavano “corsi di maoismo” per gli afroamericani in carcere.
Arriviamo dunque a una conclusione, seppur superficiale: se Putin approvò le “guerre di Bush” in Afghanistan e in Iraq non fu perché in quel momento aveva dimenticato il destino geopolitico della Russia, ma perché vedeva obiettivi comuni con il vecchio avversario. Obiettivi comunque non geopolitici. Lo stesso discorso potrebbe valere per la questione ucraina durante gli anni di Trump: qual è il motivo per cui Putin non ha valutato come impellente una invasione proprio nel momento in cui a Washington si insediava un tizio che sembrava disposto a tutto fuorché a trattare? Forse perché anche qui i motivi ideologici-culturali hanno prevalso su quelli geopolitici.
Arriverei a dire che in un secondo mandato Trump, Kiev sarebbe benissimo potuta confluire nella NATO senza che Putin avesse da batter ciglio. Certo, ormai è fantapolitica, ma col senno di poi bisognerebbe interrogarsi sul perché Montenegro e Macedonia del Nord siano entrate nell’Alleanza Atlantica senza suscitare la benché minima reazione (escluse quelle “coreografiche”) da parte di Mosca. Come se esser preso in giro da Washington con una strategia stile Pollicino (briciola dopo briciola si risale tutto l’Intermarium) potesse essere meno irritante per un Putin che non trattare un pezzo di Ucraina a Minsk.
Perciò invito chi si è ormai convertito totalmente alla geopolitica a non lasciarsi ingabbiare in letture troppo rigide, perché il rischio di equivocare è sempre presente: penso alle pubblicazioni eurasiste dei primi anni del XXI secolo, nelle quali Putin veniva definito apertamente come “burattino di Washington” ed “epigono di Eltsin”. Del resto, se prescindiamo totalmente da una lettura ideologica, culturale o, vorrei dire, ideale, della condotta delle nazioni, non resta altro che pensare a Putin come a un sempliciotto, uno sprovveduto o semplicemente un idiota, che si è fatto ingannare dagli speroni di Bush jr.
Invece, con una interpretazione più temperata, che ponga sì la terra al centro, ma con essere umano che ci cammina sopra, sarebbe possibile almeno vedere dell’ordine nel disordine internazionale. Per farla breve: senza prescindere dalla necessità di accaparrarsi risorse e danneggiare i proprio avversari, la mia idea è che una parte del potere occidentale creda che la distensione con la Russia sia preferibile a quella con la Cina, perché sente Mosca più prossima alla propria civiltà rispetto a Pechino; per gli stessi motivi, ma in senso invertito, un’altra fazione farebbe qualsiasi cosa pur di sbarazzarsi del “fardello dell’uomo bianco” (anche quando ormai non pesa più nulla) e favorire qualsiasi elemento in contraddizione con la propria identità e storia, anche in nome di un “Occidente” inteso come araldo di relativismo, nichilismo e dissoluzione.
Suggerisco una chiave di lettura universale, applicabile e valida pressoché per ogni singolo evento che ha coinvolto il cosiddetto Occidente dal 1945 ad oggi: praticamente il Fine Ultimo di tutto quanto accade è il danneggiamento delle genti di stirpe europea. Letteralmente tutto risponde a questo scopo, il nostro sterminio. Pensateci.
Ogni volta che qualcosa sembra apparentemente senza senso – che siano accadimenti geopolitici o nuovi cambiamenti sociali – se applicheremo la chiave di lettura tutto torna.
La guerra in Ucraina e lo scontro USA-Russia non fanno eccezione, ovviamente.
Esatto, ma il motivo è che “Europa” (Edom) rappresenta il male da estirpare
Anch’io ormai leggo tutto in quest’ottica, ma retrodaterei il tutto al 1914.