Il macellaio e la vegetariana

Adelphi, “il serpente di volumi”, si diverte a fare delle proprie spire giochi speculari e chiasmatici: ecco perché ci sentiamo quasi in dovere di recensire in coppia La vegetariana della scrittrice sudcoreana Han Kang e Il macellaio, racconto d’esordio ancora inedito in Italia dell’inarrivabile Sándor Márai. Non sono romanzi che parlano di gastronomia, ma di amore e odio, di umanità e animalità (dunque la gastronomia c’entra nella misura in cui si deve sempre dire che una cosa “non piace”, non che “fa schifo”).

Il piccolo capolavoro di Márai, incredibile debutto proto-musiliano, narra la storia del brandeburghese Otto Schwarz, umile figlio di sellaio che scopre la “vocazione” in gioventù e la “prosegue con altri mezzi” durante la Grande Guerra, guadagnandosi onorificenze per aver squartato uomini invece che maiali. Macellaio per la Patria e l’Imperatore è il titolo che si sceglie, fin quando non torna in una desolante Berlino già “notturna” e fassbinderiana (Márai, ogni volta una grande emozione… ma come fa?) e inizia a squarciare il ventre anche alle puttane “con accurata ed elaborata raffinatezza”, dopo aver fatto pratica coi serbi al fronte.

Il protagonista incarna i due estremi degli uomini senza qualità che attecchirono all’alba del secolo breve: da una parte è il reduce che evoca “quelli che faranno ordine”, dall’altra l’assassino seriale che infonderà angoscia nell’immaginario collettivo spostandolo sempre più verso la reazione (ricordiamo il vero “Macellaio di Berlino”, Carl Großmann, attivo proprio nella capitale di quegli anni). È inquietante questa sovrapponibilità tra uomo d’ordine e uomo del disordine: quasi un tratto tipico di quell’Oriente d’Europa con cui Karl Kraus identificò appunto la Germania. Un Oriente tuttavia sempre mediato da “illustri esponenti della stampa, delle società di psichiatria e del diritto penale”, per citare il parterre de rois che assiste al processo-spettacolo contro il “mostro”.

L’Oriente autentico, quello realmente “adelphico”, possiamo trovarlo solo nei deliri della Vegetariana di Han Kang: se l’orizzonte del maestro ungherese è in fondo ancora umana troppo umana, finché la guerra resta una “condizione naturale” e l’uomo al contempo cacciatore e preda (di se stesso ma talvolta anche di altre creature, se pensiamo che Otto viene concepito la sera stessa in cui in città una celebre domatrice viene divorata dalla sua orsa polare ammaestrata), in Corea è invece apertamente la “liberazione dall’umano” che si vuole perseguire. Yeong-hye è una donna come le altre che in seguito a un incubo decide di rinunciare alla carne, suscitando lo sconcerto dei circoli sociali a cui lei e il marito appartengono: ma ciò che viene interpretato come una moda passeggera dall’austero e conservatore milieu di Seul è in realtà un rifiuto violento dell’umano stesso, dei “corpi che puzzano di carne”.

Alla fine Yeong-hye muore pazza e anoressica: un happy end piuttosto realistico che dimostra una cerca onestà intellettuale da parte dell’Autrice, capace di raffigurare tutte le contraddizioni di un personaggio che consuma l’adulterio col cognato in preda al desiderio di “inghiottirsi” e infine decide di “trasformarsi in albero” nell’auto-illusione che le piante siano indifferenti alle nourritures terrestres. Da tale prospettiva il confine tra umano e disumano risulta più sottile di quanto non sembri, se a fondo del nostro istinto apparentemente così protervo e invincibile troviamo sempre uno sconcertante cupio dissolvi. L’ansia di distruzione predomina quindi sia nella scelta di farsi macellai che in quella di farsi macellare.

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